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   (2024)


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   (2024)

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recensioni concerti

LEVINHURST   "Live Spazio 211 Torino 18-03-2010"
   (2010)

Chi sono i Levinhurst? La domanda può, infatti, non essere così scontata se consideriamo che il leader Lol Tolhurst è più famoso per essere stato nella formazione originaria dei Cure, piuttosto che per la sua carriera post Robert Smith. Di fatto, abbiamo già svelato l’arcano. I Levinhurst sono una band fondata dall’ex drummer (e poi tastierista) dei Cure e dalla consorte Cindy Levinson, autori di tre lavori sulla lunga distanza. La nota di interesse cresce ulteriormente se andiamo a leggere che nell’attuale line up vi è anche quel Michael Dempsey che fu il bassista accreditato in “Three imaginary boys”, primissimo gioiello di quel mostro sacro che si scrive The Cure (e si legge Robert Smith). Poco da aggiungere, allora, a quella che si presenta come una serata con tante aspettative, se non altro per i nomi in cartellone. Non ci sorprende, invero, la location; stiamo parlando dello Spazio 211 di Torino, ovvero uno dei luoghi che da sempre si è caratterizzato per l’organizzazione di eventi di primissimo piano e di notevole spessore (magari nomi meno altisonanti, ma dall’indiscusso fascino underground). Quello dei Levinhurst (da notare che il nome del gruppo riprende parte dei cognomi dei fondatori della band) è il secondo tentativo per Lol Tolhurst di emancipazione dai Cure. L’ex batterista, infatti, quando era ancora nell’organico del gruppo di Smith, fondò i Presence, gruppo che non seppe, invero, durare più di una pubblicazione. Dopo anni di assenza (probabilmente passati a disintossicarsi dall’alcolismo), Tolhurst, cacciato da Smith durante le registrazioni di “Disintegration”, si trasferì a Los Angeles e trovò moglie (oltre alla voglia di rimettersi in gioco sul piano musicale). Quello dei Levinhurst appare, allora, come un progetto volutamente più maturo e, forse per questo, duraturo, se consideriamo che il recente “Blue star” è stato preceduto da “House by the sea” e dal disco d’esordio di “Perfect life” (in effetti debole e assai poco ascoltabile). L’accogliente locale torinese si presenta stracolmo di interessati. Difficile parlare di fan del gruppo. Oltre a qualche curioso, infatti, lo spazio 211 è praticamente affollato da sostenitori del gruppo di Crawley (eh sì, faccio un po’ di autocritica anche io), intervenuti, per lo più, per toccare e rivivere un po’ di quella storia dei Cure, almeno del suo primissimo periodo. Poco dopo le 23.00, quando anche la band di supporto ha terminato lo spettacolo, i Levinhurst fanno l’ingresso sul palco. Notiamo subito che Laurence Tolhurst si posiziona alla batteria; un ritorno, dunque, al suo primo amore (e come non ricordare gli inimitabili colpi impressi nell’immortale “Pornography”: un contributo per il quale non smetteremo mai di dirgli grazie). La moglie e vocalist Cindy Levinson, elegantemente vestita di nero, è al centro del palco, tra Eric Bradley e Michael Dempsey, ovvero l’altra star della serata, presentatosi con una cuffia scura che indosserà per tutto il concerto (interessante notare come in scaletta ci sia quella “Jumping someone else’s train” che fu l’ultimo brano in cui il bassista compare quale membro dei Cure). Il calore del pubblico è subito immediato e sincero, e la band appare serena nel proporre pezzi propri, alternati a quelli del primissimo periodo dei Cure. Tra un brano e l’altro (a testimoniare che in questa formazione è lui il capitano) è Lol Tolhurst a dialogare con il pubblico e ad anticipare la canzone successiva. Il sound dei Levinhurst è piacevole e porta la giusta atmosfera all’interno dello Spazio 211; ci piacciono le chitarre (stridenti al punto giusto) e l’antica sessione ritmica riesce a regalare colpi di classe. La signora Tolhurst, per contro, svolge il suo compito egregiamente, facendosi apprezzare per un cantato quasi etereo e per una presenza scenica dignitosa (a fronte di un’età non più giovanissima). Tra i brani autografi che hanno lasciato maggiormente il segno segnaliamo “Sargasso” e “Mau Mau” che riescono a portare il suono della band vicino a certe corde in stile Cocteau Twins. Ma (e come poteva essere diversamente) il pubblico, pur tributando il dovuto rispetto alle canzoni dei Levinhurst, impazzisce quando sono le canzoni dei Cure a salire in cattedra. È già dal terzo brano, infatti, che Tolhurst anticipa ai presenti che la prossima canzone sarà legata al suo passato: attesa nel pubblico e grande entusiasmo quando partono le note di “Play for today”. Molto ben riuscita anche la cover di “Subway song” (per chi conosce il pezzo, possiamo dire che non c’è stato l’urlo terrorifico immortalato in “Three imaginary boys”), realizzata in maniera più jazzata rispetto all’originale. Dopo l’esecuzione di “Another day” (sicuramente tra le più belle del primo lavoro dei Cure), Lol Tolhurst dice che adesso arriva il momento per “un altro modo”, iniziando “Another way” che, tratta dal secondo lavoro del gruppo, riceve la giusta e meritata dose di applausi. Molte altre canzoni dei Cure trovano spazio in questa serata: da “10.15 Saturday night” e “Boys don’t cry”, passando per “Three imaginary boys” (Michael Dempsey ci indica che questa sera i ragazzi immaginari sono quattro, mostrando il numero con la mano) e finendo con “Killing an arab”. È evidente che in ogni brano dei Cure si sente la mancanza della voce e della chitarra di Robert Smith (inutile pensare il contrario… i Levinhurst non sono i Cure), ma in “Killing an arab” questa mancanza diventa addirittura un vuoto infinito. Il cantato della Levinson che rimane monocorde e soave, il brano che non si incattivisce sul finale ed un ritmo che rimane troppo regolare, ci dicono come, a volte, non sia facile “coverare” i Cure, neppure quando sul palco ci sono due terzi di nobiltà. È proprio questo il rischio che corrono di fare i Levinhurst: apparire come una cover band del gruppo di Smith. Il loro show, peraltro, cerca di rispettare le diverse identità, mantenendo in scaletta brani autografi, anche quando questi sono accolti da un entusiasmo minore. Il calore del pubblico è, comunque, alto e sincero in ogni momento del concerto, tanto da spingere i quattro a salire sul palco per proporre nuovamente “10.15 Saturday night”, (ultimo e sicuramente non previsto rientro in scena), che mette la parola fine alla serata. Un concerto che ha convinto e che non è stato tristemente nostalgico, ma vissuto con grande serenità e sincera passione da parte di tutti. (Gianmario Mattacheo - Foto by Silvia Campese)