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TOM WAITS "Live Teatro degli Arcimboldi Milano 18-07-2008"
(2008)
Forse sarà scontato dirlo, e poi mancano ancora sei mesi alla fine del 2008, ma quello di Tom Waits al Teatro degli Arcimboldi di Milano passerà senz'altro come uno dei concerti dell'anno. Atteso in Italia da anni, prima ancora che dai due concerti fiorentini del 1999, da quel lontano 1986 quando fu invitato al Club Tenco a Sanremo per ritirare il Premio Tenco ed eseguire tre brani, e stregò il pubblico con un'esibizione di 45 minuti davvero unica. Perché unico Tom Waits lo è davvero, unico e originale come pochi altri artisti nel mondo del rock. Pubblico delle grandi occasioni (tra gli altri, Capossela e Benigni), molto vario per età e gusti musicali (notate magliette di Sonic Youth, Lou Reed e Motorhead). Si inizia leggermente in ritardo, con Waits che guadagna la posizione al centro del palco, su una pedana rotonda leggermente rialzata da cui non scenderà per tutto il concerto, con un ritmo lento che improvvisamente accelera per poi rallentare nuovamente, per i primi sette minuti di fuoco. Magnetico, attore fino al midollo, segue il ritmo con movimenti scomposti del corpo, tenendo il tempo con pesanti battiti del piede sulla pedana, da cui si alza ad ogni colpo una nuvola di polvere. Il pubblico è già conquistato, e dal secondo brano, “Down In The Hole” è puro delirio, con il pubblico che letteralmente si spella le mani per gli applausi. A “Down In The Hole”, brano tirato e con bell'assolo di sax, seguono “Fallin' Down”, molto intensa, e la più lenta “Beauty and the Beast”, a cui segue un altro brano molto d'atmosfera, “November”. Ma il ritmo accelera nuovamente quando Waits incita il pubblico a battere le mani a tempo, e il teatro sembra vibrare all'unisono. Dopo nove brani per quarantacinque minuti di grande musica, Tom si siede al piano, e senza band colpisce ancora una volta al cuore il suo pubblico con quattro brani splendidi: “Picture In A Frame”, “Lucky Day”, “Christmas Card from a Hooker in Minneapolis” e “Innocent when you dream”, sul cui finale invita ilpubblico a cantare con lui il ritornello. E' il momento del concerto in cui Waits torna a fare l'intrattenitore come agli inizi di carriera, raccontando aneddoti tra una canzone e l'altra, idee balzane per risolvere i problemi sociali più importanti (come quello degli escrementi dei cani sui marciapiedi), e divertirsi sfoggiando il suo milanese (sedendosi al piano esordisce con “son cuntent de ser chi”). Poi si riprende con la band che torna sul palco per “Lie to Me”. Ma è impossibile dar conto di tutto il concerrto. Ognuna delle 23 canzoni suonate meriterebbe una citazione, per l'intensità dell'esecuzione di Waits come per la bravura dei musicisti. Musiche sghembe, ritmi sincopati che sembrano contenere al loro interno tutta la storia della musica: da Nino Rota a Frank Zappa, dal cabaret di Kurt Weill al jazz mitteleuropeo, al rock, al blues più sporco. La chiusura, dopo 90 minuti, con un'accoppiata da brividi: “Dirt In The Ground”, lenta, giocata sul contrappunto di un sax dai toni aggraziati e la sua voce graffiante, e “Make It Rain”, su cui presenta la band, ed il pubblico che ancora una volta,sul lungo finale, accompagna Waits battendo le mani, mentre sul cantante scende una pioggia di coriandoli dorati. Non può mancare il bis, e Waits and band tornano sul palco per altri tre brani: “Black Market Baby”, la splendida “Cold Cold Ground”, riconosciuta dal pubblico fin dalla prima nota, con una bella fisarmonica che sottolinea il ritornello, e “Come On Up To The House”. Concerto splendido, per un artista geniale come pochi altri, e unico in tutto: le magliette ufficiali del tour non riportano né il suo nome, né le date, solo una foto di una macchia d'olio scattata da Waits. Genio puro. (Giorgio Zito)