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20/12/2024
19/06/2014 PIPPO POLLINA
Come essere un n.1 all'estero ed un quasi-sconosciuto in Italia...
La storia di Pippo Pollina è abbastanza nota: se non altro, per il suo essere una storia del tutto inusuale. Ha inciso quasi 20 album, tutti in lingua italiana, che hanno avuto ed hanno tuttora grandissimi riscontri all'estero (Germania, Francia, Svizzera, Austria) ma che sono quasi sconosciuti in Italia. Giusto per chiarire di cosa stiamo parlando, Pippo la scorsa estate ha concluso la sua tournèe europea (insieme a Werner Schmidbauer e Martin Kälberer) all'Arena di Verona. E l'ha riempita come un uovo. Solo che, degli spettatori di quella magica serata, il 90% proveniva dall'estero, e solo il 10% erano fans italiani. Ora c'è un nuovo disco (''L'appartenenza''), tanto per cambiare splendido, che figura nei primi posti di svariate charts continentali ma che, come al solito, in Italia non ha fatto nemmeno una comparsata nelle classifiche di vendita. Abbiamo voluto incontrare questo splendido rappresentante dell'italianità per, se possibile, farci spiegare come sia possibile tutto questo. E' possibile definire ''L'appartenenza'' l'album della tua maturità? ''No, sinceramente non credo... Però di certo ci ho messo tutto quello che avevo dentro in questo momento, il meglio di ciò che avevo da tirar fuori... E, forse per la prima volta, ho usato pazienza nella stesura dei testi, non sono stato frettoloso come altre volte era successo: se vedevo che le parole non uscivano come volevo al 100%, prendevo tempo, magari ci ripassavo la settimana successiva, non mi sono fatto prendere da frenesie che invece, in passato, qualche volta avevo. Per questa ragione i testi stavolta sono forse più ricercati rispetto al passato, più giusti, più precisi''. ''L'appartenenza'' è, già di per se', un titolo bellissimo per un disco: cosa ti appartiene in questo momento, musicalmente e nella vita? ''Innanzitutto mi appartiene, in questo momento, il desiderio di mettere le carte in tavola, e di farlo con più disinvoltura rispetto al passato. Non ho più alcune insicurezze ed alcuni timori che vivevo un tempo: ho imparato a non preoccuparmi troppo per il riscontro del mio lavoro. Io sono esattamente così come mi presento: ringrazio chi mi apprezza ma non mi cruccio per quelli a cui non piaccio. Questo inedito stato d'animo si avverte nelle nuove canzoni, e forse per questo l'album sta andando particolarmente bene: la gente ha, probabilmente, avvertito questa nonchalance, questa trovata disinvoltura nel dichiarare la mia aderenza, musicale e sociale, a certi valori''. Nel 2015 ricorreranno 30 anni da quando hai lasciato l'Italia. Da osservatore esterno, quanto è cambiato il nostro Paese in questo lasso di tempo? ''Lasciai l'Italia deluso ma soprattutto impaurito. Avevo intuito che il nostro Paese potesse diventare ciò che, in effetti, oggi è diventato: è questa la grande amarezza ed il grande dolore che provo. Un tempo la cultura popolare, la rappresentazione della vita nell'arte erano importanti, fondamentali: l'estetica e l'etica trovavano punti di contatto. In Italia ci sono migliaia di teatri e spazi bellissimi, dove però ora le maestranze non hanno più lavoro, dove i cartelloni sono ridotti, dove gli spettacoli sono deserti. Le immense potenzialità dell'arte italiana sono trascurate se non addirittura oscurate: questo si intuiva 30 anni fa, ed ora purtroppo è sotto gli occhi di tutti''. Dopo quasi 20 dischi prodotti, ed un numero infinito di splendide canzoni incise, che sensazioni provi nel vedere che ai tuoi concerti italiani vengono poche centinaia di persone mentre, a pochi chilometri da qui, riempi teatri e arene imponenti? Provi rabbia nel vedere l'ultimo prodotto dei talent show schizzare in testa alle classifiche tricolori mentre il tuo disco vende quasi solo all'estero? ''Col tempo me ne sono fatto una ragione. Sinceramente, più che per me, dispiace per i miei musicisti che, abituati a quanti ci vengono a vedere all'estero, mai immaginerebbero la scarsezza di presenze agli spettacoli fatti nella mia madre patria. Dispiace soprattutto per la gente che lavora per la mia musica qui in Italia, per chi lotta quotidianamente per dare risalto alla mia opera: loro soffrono di questa situazione molto più di me. Io mi reputo molto fortunato, perché raccolgo grandi soddisfazioni altrove, anche se ovviamente noto come sia curioso che le mie canzoni, in lingua italiana, siano enormemente più conosciute in paesi che non capiscono la nostra lingua, che vanno a studiarsi con fatica i miei testi quando, in Italia, gli stessi vengono quasi ignorati. Vedo di avere grandi riscontri in alcuni paesi, ma sono ancora più stupito del fatto che la mia musica attecchisca ovunque, dal Portogallo all'Ucraina, anche se quasi sempre in una minoranza di persone, in una nicchia. Così è, purtroppo, anche nello Stivale. Quando sono andato via dall'Italia, ero convinto che sarei tornato poco dopo, ma soprattutto ero certo che non avrei mai fatto questo mestiere. E questo non per mancanza di convinzione nei miei mezzi, ma perché non volevo avventurarmi in un viaggio, quello della musica, che in questo paese è legato ad un ambiente con il quale sapevo che non sarei riuscito a interagire senza compromessi, senza certi comportamenti, senza fare ''comunella'' con ambienti e persone che sentivo (e sento ancora) a mille miglia da me e dalle mie convinzioni. Per fortuna, e con mia grande sorpresa, all'estero ho trovato il modo di essere ciò che sono, un semplice musicista, senza essere costretto ad essere altro''. Eppure, anche in Italia, chi entra in contatto con la tua musica, difficilmente se ne stacca. Forse il problema è proprio il non riuscire a far giungere la tua proposta ad abbastanza persone? ''Penso che il problema principale sia che io non vivo qui. L'Italia è un posto in cui c'è la necessità di una presenza forte e continua, un paese nel quale vige la regola dei rapporti, delle frequentazioni che si hanno, dei salotti in cui occorre comparire. Se questo non avviene, si rimane fuori dal giro, e la musica si diffonde solamente tramite la gente appassionata. Considero già un miracolo, alla luce di tutto questo, che ai miei concerti italiani vengano 3-400 persone paganti: anzi, è un ''miracolissimo'', se pensi che le radio, le televisioni non trasmettono le mie canzoni. In Italia si è persa la curiosità. O, meglio, ce l'hanno fatta perdere, la curiosità. C'è stato, secondo me, un piano, per nulla casuale (anzi meticoloso), per abbassare il livello culturale ed intellettuale di questo paese, per riuscire poi a manipolarlo a proprio piacimento. La gente non ascolta più musica, non legge più giornali o libri, in poche parole non vuole più pensare. Se si riuscisse ad invertire il trend oggi stesso, ci vorrebbero decenni, forse cent'anni, per riportare l'Italia ad essere ciò che era, ovvero una culla per la cultura di tutto il mondo. Da ciò derivano i problemi di chi rimane appunto fuori dal ''giro'', come il sottoscritto. Rimango comunque fortunato, perché ho raccolto all'estero ciò che l'Italia mi ha negato''. (Andrea Rossi)