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13/09/2017   RAPSODISMURINA
  ''Il testo per noi non ha solo funzione evocativa, ma è arma contundente...''

Oggi incontriamo Walter Smurina, leader dei Rapsodismurina, innovativo power-trio laziale, funamboli dei doppi sensi e affascinati dal numero 12 (e scopriremo dopo il perché). E, quindi, non potevano essere che 12 le domande dell’intervista.

Ciao Walter, per iniziare potresti brevemente raccontare ai lettori le vostre origini e formazione artistica? ''La formazione in power trio, come adesso è conosciuta, si è costituita piuttosto recentemente, ma l’idea originaria risale agli anni fra il 2008 e il 2009. Avevo in mente delle storie musicate da raccontare e allora mi sono messo a girare, come un rabdomante, alla ricerca di musicisti che potessero allinearsi con le mie vibrazioni e il mio stile; mi sono fermato in una zona localizzabile più o meno nell’alta Tuscia, fra Lazio e Toscana, dove ho sentito una specie di richiamo sovrannaturale con i nostri antenati etruschi. Lì ho ri-cominciato la mia attività concertistica come Walter Smurina e si è per primo unito a me Federico Nespola, con cui ho completato e poi pubblicato il primo album, nel 2011. Hanno collaborato con noi altri grandi musicisti ma l’incontro successivo con il maestro Daniele Fallarino nel 2013 è stato determinante, ed illuminante. Ora credo che il trio così come composto (Smurina, Fallarino, Nespola) abbia raggiunto un’intesa straordinaria e acquisito un sound caratteristico che ci consente di rendere dal vivo come se fossimo un’orchestra di molti più elementi. Di emozionare ed emozionarci. Le nostre conoscenze e la nostra formazione artistica così eterogenee ci hanno consentito, credo, di creare un miscuglio originale che attinge alle radici della musica, ma che ha una forte componente rock etrusca''.

Avete indubbiamente scelto un nome che può rivelarsi una lama a doppio taglio: da una parte originale e distinguibile. Dall’altra, non facilmente pronunciabile e memorizzabile a primo impatto. L’avevate messo in conto? ''Assolutamente sì. Ero consapevole e non mi importava dei rischi che correvo. La mia idea era anzitutto quella di creare un progetto che fosse distinguibile da tutto il resto, per evitare che da qualche parte del mondo potesse esistere qualche omonimo. Inoltre siamo dell’avviso che occorre dare il giusto senso alle parole, senza lasciarsi inseguire dalla moda di avere un nome dalla rapida acquisizione, o un logo che in fondo risulti privo di contenuti. Nel nostro progetto è sintetizzata l’idea di narrare storie musicate, unendo i musicisti con il narratore, oserei dire facendo una crasi (oppure sto esagerando?) fra il termine RAPSODI, legato alla antica tradizione orale greco antica, con la mia stessa maschera. Ecco. Vista in quest’ottica di scomposizione, in realtà pronunciare RAPSOdiSMURINA diventa facilissimo''.

Il percorso di una band, se perdura negli anni, è spesso caratterizzato da cambi di formazione: è successo anche a voi di trovarvi in queste difficoltà, visto che siete in attività dal 2008? ''Come già anticipato, il progetto ha avuto i suoi travagli e i suoi momenti di discussione. Sono stati con noi Alex Ferrara e Roberto Ritrovato nelle registrazioni del primo album, poi Nicolò Ratto e Angelo Di Guglielmo fino al 2013 nelle attività live, poi c’è stata qualche altra collaborazione “esterna” e la geniale impronta di Pierfrancesco Orlandi fino al 2014. Come detto, però, l’incontro con il maestro polistrumentista Daniele Fallarino è stato quello che ha dato quel tocco di magia e la definitiva stabilità alla banda''.

E’ fin troppo evidente, da parte vostra, di perseguire un discorso esclusivo, che si distacchi dai soliti clichè di genere. Ciò comporta, inevitabilmente, continue sperimentazioni: quanto tempo passate a ricercare passaggi innovativi e soluzioni diverse? ''In effetti ci incontriamo in modo continuo e costante in studio per studiare e suonare di tutto, insieme. Il nostro obiettivo è sempre quello di sperimentare suoni e storie mai raccontate, soprattutto se declinate nella nostra lingua madre, e cercare di stupire e stupirci per qualcosa che giunge nuovo alle orecchie; questo, purtroppo, nei tempi che viviamo diventa automaticamente un discorso esclusivo. Una battaglia difficile che cerchiamo di portare avanti è quella di fare in modo che, invece, questo concetto passi per un ascolto più popolare, pur essendo la nostra musica difficile da assorbire al primo colpo''.

Il primo album “Circostanze estrose” è colmo di doppi sensi, a testimonianza di come la lingua italiana offra molteplici spunti e nasconda, in una semplice parola, più significati. Ti è sempre piaciuto essere uno “stanatore” dell’idioma nazionale? (e lo hai fatto anche nel nuovo album “Oktopus: il controllo d’elementi”...). ''Sì, mi è sempre piaciuto giocare con la lingua italiana, soprattutto dopo molti anni di studi classici, quando la mia vita seguiva altri percorsi formativi e finalmente ne apprezzavo il vantaggio. Fra l’altro, prima di raccogliere i frutti della produzione musicale, soprattutto nel mio cosiddetto periodo berlinese, ho lavorato sulla scrittura, sperimentando poesia, racconti brevi e romanzi. In più, nel nuovo album siamo andati oltre. Ci siamo cimentati con inglese e serbo-croato, e presto potremo varcare altri confini. La lirica, nei nostri progetti, ha una componente fondamentale: il testo non ha solo funzione evocativa, ma è arma contundente, a volte con dei suoi precisi contenuti, altre volte con significati metaforici che dovranno essere interpretati dal fruitore stesso dell’opera''.

Il genere che fate vi piace definirlo un “rock postmelò alternato”, frutto della miscellanea di stili e influenze: per dare un’idea più chiara e completa, cosa intendete nello specifico? ''Spesso ci viene chiesto di dare una definizione del genere, perché razionalmente accade sempre che un ascoltatore distingua per categorie o proceda per classificazioni. Siamo stati spesso inquadrati nel cosiddetto filone del rock alternativo, con tendenze al grunge anni '90 (precisiamo di aborrire la parola indie, che ha oramai una connotazione ambigua e troppo controversa). Allora ad un certo punto abbiamo pensato che sarebbe stato più onesto aiutare quell’ascoltatore spaesato, e noi stessi insieme a lui, ad uscire da questo terrificante loop; da ciò l’idea di coniare, in modo assolutamente autoironico, una nuova terminologia che definisse l’insieme di stili e influenze, come hai giustamente detto. Non siamo melodici e non siamo pop tout court, non siamo solo rock italiano e a maggior ragione non siamo alternativi a nessuno; semmai facciamo rock alternato e miscelato ad altri generi''.

Dopo un lustro di assenza, siete tornati col suddetto nuovo album “Oktopus: il controllo d’elementi”, altro concept-album col filo conduttore dei segni zodiacali e del ciclo della vita. Non a caso include 12 brani. Ma 12 è anche un numero che, in qualche modo, vi attira particolarmente: qual è il suo magnetismo latente? ''Il numero 12 ricorre dall’antichità in diverse forme ed accezioni. Lo troviamo nei miti e nelle religioni arcaiche, poi preso a prestito da quelle monoteiste. Lo troviamo come punto di riferimento nella scuola pitagorica, e lo usiamo oggi, volenti o nolenti, per misurare il nostro tempo, con le ore, i mesi, gli astri. Questo numero ci ha assillato, per tutto il periodo (oltre un anno) di preparazione dei brani contenuti nell’album. Guarda caso i brani migliori che sono stati inclusi in “Oktopus, il controllo d’elementi” sono dodici, ognuno di loro con un suo possibile inquadramento all’interno di un segno zodiacale, e un suo riferimento ad uno dei quattro elementi fondamentali della natura. A voi toccherà scoprire il resto, ascolto dopo ascolto''.

L’album esce anche in versione vinile in limited edition. Cosa vi ha spinto a osare un’operazione non proprio usuale per la scena underground: il ritorno al “back to black”, la voglia d’immortalare in “grande” un lavoro in cui credete molto o cos’altro? ''Ogni nostra operazione è dettata da ciò che è inusuale. Noi facciamo quello che sentiamo a prescindere dal fatto che debba dare un ritorno economico. Oggi che si scarica facilmente qualsiasi cosa dalla rete, non ha più senso ragionare in questo modo. Ritorniamo all’arte per l’arte. Ebbene, il cofanetto in vinile, che include pure la preziosa grafica di Francesco Nespola, è stato concepito come un piccolo manufatto artistico. Appunto per rendere ancora più immortale un lavoro in cui crediamo''.

Dall’ascolto di “Oktopus” mi sembra di scorgere che la quasi totalità dei brani includano tematiche che evidenziano non proprio una polemica o una protesta ma semmai la marcatura di un disagio nei confronti di quest’epoca che si vive: è cosi? ''Nell’album c’è il disagio di cui parli, c’è tanta amara ironia, ma in verità ci sono anche forme più o meno dirette di rabbia, che possono tranquillamente sfociare in protesta, o almeno in voglia di dissentire. Oggi si è persa, se non allentata, questa forma di espressione. Tutto sembra volgere verso il nichilismo e il qualunquismo che nasconde rassegnazione e poca voglia di scendere in piazza con l’altro. In questo, ancora una volta, forse siamo inusuali, come si dice oggi vintage''.

Quali sono i brani con i quali volete sottolineare le tematiche più scottanti? Di certo, sia “Giungla dell’orco” che l’iniziale “Sbriganti” parlano di svariate forme di sofferenza. In particolare, quest’ultima, è vista dalla parte di un perdente. ''Difficile fare una scelta. “Sbriganti” certamente prende a pretesto la questione meridionale e dell’unità d’Italia, per guardare il mondo dalla parte dei perdenti, “Giungla dell’orco” invece tratta dei temi scottanti della violenza nascosta subita da piccoli ed indifesi. Merita menzione anche “Cianuro ai papaveri”, in quanto lunga ballata che evoca sottilmente problematiche attuali, quali quelle delle morti bianche, o degli sbarchi di profughi disperati sulle sponde dei mari europei. Ogni brano ha davvero tanti condimenti al suo interno da assaporare ed è frutto di un lungo e cesellato lavoro''.

Dal vivo siete una formazione molto malleabile e adattabile a varie soluzioni: acustico, semi-elettrico ed in elettrico al completo, e ciò è sinonimo di grande tecnica e affiatamento. Che riscontri avete dal pubblico, ossia qual è la dimensione che più predilige chi vi ascolta in concerto? ''Il riscontro è molto positivo, nonostante ci sia sempre meno gente disposta a seguire musica originale dal vivo, soprattutto nell’Italia dove regnano sovrane le tribute bands e i mega-concorsi per gruppi emergenti. Io personalmente credo che in elettrico abbiamo una maggiore spinta attrattiva, ma sappiamo essere ipnotici anche in situazioni da setup acustico''.

Che rapporto avete con i social e con i fans? Credete in questo mezzo di promozione o ritenete che il contatto diretto dei concerti sarebbe più efficace se fossero più frequenti e se vigesse da noi una maggiore cultura per i live? In finale: cosa vi sta a più a cuore trasmettere al vostro pubblico? ''Hai inquadrato bene i punti cruciali della situazione culturale e musicale, non soltanto italiana. Oggi non si può più prescindere dall’utilizzo dei social e quindi ci siamo dovuti perfettamente adeguare. Ovviamente se ci fosse una maggiore attenzione e un investimento per maggiori spazi culturali, per le live performances, sarebbe tutto più semplice, e naturale. Tuttavia stiamo lavorando molto con i videoclip per cercare di attrarre ulteriori fans nel magico mondo di YouTube, dove probabilmente si giocherà il futuro della musica mondiale. Ogni tre mesi sono previste, sul nostro canale YouTube, nuove uscite di music video legati al nuovo album, di grandissima qualità e alta professionalità: al momento consigliamo “Giungla dell’orco” che è stato pubblicato alla fine dell’estate. Quello che vogliamo trasmettere al nostro pubblico è il puro amore per la musica, per la scoperta, per l’ascolto “diverso”, impegnato e partecipato: non quello asettico e privo di sostanza però, dove basterebbe ballare sotto il palco, e non rifletterci sopra, tornando a casa. Per quello ci sono altri più bravi di noi''. (Max Casali)