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09/07/2017   FRANCESS
  ''Quando si fa ciò che piace, il risultato non può essere che positivo...''

Poco prima della sua esibizione, nella suggestiva piazza del Castello di Lerma (Al), dopo una cena in compagnia dei suoi musicisti e alcuni amici, ho modo di fare quattro chiacchiere con Francess, alias di Francesca English, parlando del più e del meno, di musica e del suo ultimo interessante lavoro, già recensito per Music Map. Mi trovo ad interagire con una persona semplice, gioiosa, molto disponibile, e in grado di trasmettere la sua energia a chiunque incroci il suo sguardo. E così, in questo clima assolutamente amichevole ed in cui sembra di conoscersi da una vita (in realtà è la prima volta che ci incontriamo), seduto su un muretto che lascia intravedere il panorama mozzafiato attorno alla rocca su cui si erge Lerma, chiacchiero con Francess e le chiedo:

Sei reduce da questo coraggioso lavoro: coraggioso perché ti sei fatta carico e (perché no?) ti sei presa anche la responsabilità e il rischio di mettere mano al patrimonio musicale italiano, rivestendolo di nuove sonorità. Cosa mi puoi dire su questo aspetto? ''Sì. Nella scelta dei brani ho dovuto tenere conto di una mia priorità, nel senso che io li potessi realmente fare. Dovevano essere dei brani che io potevo adattare, non solo con la traduzione ma che, anche a livello sonoro, fossero trasportabili nel mio mondo. Ho fatto dei brani che erano giusti per me. Mi piacevano, e quando si fa ciò che piace il risultato non può essere che positivo''.

Le difficoltà sono state nella traduzione, per mantenere fede al brano in sé e anche alle intenzioni dell’autore che originariamente l’ha pensato. O sbaglio? ''Sì. Tante difficoltà nella traduzione, soprattutto quando il tentativo di base era quello di trasmettere le sensazioni della canzone originale, unite all’esigenza di far capire in inglese il significato del testo originale. Quindi un lavoraccio...''.

Lavoraccio coraggioso, come ti dicevo prima, ma nello stesso tempo rischioso, perché fare delle cover potrebbe significare essere a corto di idee su propri lavori e, quindi, potrebbe essere facile appropriarsi di un qualcosa fatto da altri, non credi? ''Sì, certo. Noi abbiamo fatto un lavoro in cui i pezzi sono stati smontati e rimontati addosso a me. Fare una cover che è la sola copia di una canzone non ha senso, e, quindi, se l’ho fatto è perché ci tenevo a filtrare questi pezzi attraverso i nostri arrangiamenti e la mia lingua, cioè l’inglese, che è la lingua con cui ho imparato a parlare. E’ un disco che è nato dal bisogno di far capire per gioco a mio padre (che è giamaicano) il senso profondo di alcuni brani della musica italiana''.

E’ stato, quindi, un voler far entrare tuo padre in un mondo che non è il suo. ''E’ stato come dirgli “Adesso te le spiego io… se non capisci quanto sono belle e perché sono così queste canzoni, non ti preoccupare… adesso te le spiego io”. Sicuramente da lì nasce la cura con cui ho fatto le traduzioni, nonostante le difficoltà, perché linguaggi diversi sono frutto di culture diverse, di termini che, tradotti, perdono di significato e ne acquistano un altro. C’è una non sovrapponibilità linguistica, e la necessità è quella di rispettare nella traduzione non solo il senso del brano in sé ma anche la metrica originale. Il tutto è stato fatto con il massimo rispetto nei confronti di un brano non mio, ma con il desiderio di spiegare tutto anche a chi l’italiano non lo capisce''.

La reazione di tuo padre? ''E’ stato contento di ascoltare della musica italiana, e contento del fatto che sia stata io a rendergli possibile questo. Mio padre è felice di tutto quello che faccio io. Sicuramente è stato interessante vedere mio padre, questo omone giamaicano, ascoltare canzoni come “Il Cielo In Una Stanza” e apprezzarle come le apprezziamo noi''.

“Guarda Che Luna” era stata precedentemente tradotta nel 1959. Il tuo apporto in questo caso è stato a livello musicale? ''Sì. Abbiamo deciso di curare solo gli arrangiamenti, facendoli in due versioni. Una versione si è sviluppata durante i live, in chiave acustica, mentre la versione in studio è più elaborata''.

Quanto all’unico pezzo inedito? ''Il pezzo si chiama “Good Fella”. E’ l’unica canzone che abbiamo scritto noi, mezza in italiano e mezza in inglese. C’è un po’ di tutto: frasi che iniziano in inglese e finiscono in italiano e viceversa. Ho preso gli stereotipi della cultura italiana e li ho sbattuti dentro, trasformando il tutto con un’ironia che vuole giocare un po’ con i linguaggi ma anche spiegare che l’Italia non è fatta di pizza, spaghetti, mandolino e mafia (che ci sono, non lo nego), ma c’è tanto altro. Il cuore, il succo e la ricchezza della storia italiana non sta nei soliti stereotipi ma in tanto altro che deve essere vissuto e scoperto. C’è un piccolo momento in cui cito “Vesti la giubba e ridi pagliaccio”, che mi ricorda tanto mio nonno paterno. La cantava al mattino quando si svegliava ed è la prima opera a cui mi sono interessata e mi piace tantissimo. L’unico momento in cui la musica cambia nel brano è quello in cui c’è l’immagine di questo pagliaccio orgoglioso''.

L’ideale sarebbe allora avere una lingua che sia unica, che faccia da tramite tra le tue due culture. ''Questo è il senso di “Good Fella”. Ci sono le due culture che si fondono e a tratti si pestano i piedi, perché comunque trovare una lingua unica per me è sempre stato un forte desiderio. Con mio padre parlo inglese, con mia madre parlo italiano, quindi mi divido tra due parti che sono unite ma anche separate nel mio essere''.

Progetti futuri? Stai preparando altri lavori? ''Al momento è da poco uscito il disco e siamo concentrati a pensare che strada intraprendere. In realtà siamo molto nel presente, al momento. Abbiamo canzoni nuove ma nessun progetto immediato, e siamo fermi qui a goderci il risultato di un lavoro intenso''.

Zucchero? ''Zucchero è successo così a caso. Mi hanno chiamata e sono andata prima a “Che Tempo Che Fa”, in Rai, vedendo tutti i retroscena di un mondo, quello televisivo, che non avevo mai visto, e poi al “Wind Music Awards” all’Arena di Verona. Devo dire che è stata un’esperienza assolutamente forte, interessante e molto formativa professionalmente e personalmente''.

Che tra l’altro fa curriculum... ''Che tra l’altro fa molto curriculum, perché quando hai avuto l’opportunità di fare la corista di Zucchero, cambiano tante cose a livello professionale''.

Chi è Francesca? ''Chi è Francesca? Mamma mia, che domanda difficile e impegnativa... Se dovessi chiederlo ai miei amici ti direbbero che sono una “stupida”. Sono una persona che non si prende tanto sul serio: quando faccio qualsiasi cosa la faccio perché mi piace, senza pensarci tanto. Non mi piace prendermi sul serio. Hanno scritto che sono abbastanza riservata ed è in un certo senso vero, perché non rivelo subito nulla di me a meno che non abbia di fronte la persona giusta per poterlo fare. Non so dire altro perché questa è la domanda più difficile di tutte le domande possibili, perché richiede un livello di introspezione e di capacità di vedersi allo specchio non semplice''.

Posso dire io allora chi è Francesca a chiusura di questa nostra chiacchierata, cogliendo l’occasione per ringraziarti per il tempo che hai dedicato? ''Vai, prova''.

Due aggettivi su tanti che me ne vengono in mente. Simpatica e umile. ''Grazie. Sono contenta. E grazie a te per avermi dato l’opportunità di esprimermi''. (Angelo Torre)