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20/12/2024
04/01/2005 MARILLION
'Oddio, abbiamo avuto così successo?'
La prima volta che ho parlato con Steve Hogarth, i Marillion non avevano un album in uscita ed erano in Italia per uno show speciale organizzato dal loro fan club: un evento unico, e un’intervista a cinque, con tutta la band a disposizione. Ricordo Hogarth avvolto in un montgomery color panna, quasi altezzoso e spocchioso, pieno di sé e di quello humour britannico che può suscitare interesse o odio in stessa ugual misura. Quel giorno, da parte mia, fu indifferenza. E un battibecco con Mark Kelly. Non un esordio fortunato. Rivedo Steve Hogarth oggi, e il fatto che si avvicini al banco del catering stiracchiandosi ancora assonnato e che poi venga a sedersi al mio tavolo portandomi una tazza di caffé bollente, lo fa sembrare più simpatico. E’ in pantaloncini, maglietta e sandali: se non fosse per quegli occhi di ghiaccio che continuano a fissarmi, nemmeno sembrerebbe lui. Novanta minuti a ruota libera dei quali trovate un estratto dal quale ho volutamente tagliato le discussioni sul calcio e sulla guerra in Iraq, ma di cui ho conservato gelosamente tutto il resto. Tanto gelosamente da pubblicarlo soltanto ora. Da “Marbles”, ultimo e splendido parto della band inglese, fino alla vita di un uomo che vive immerso nella musica come in una placenta protettiva contro i mali del mondo: sono belle parole quelle di Steve Hogarth, che nei novanta minuti alterna battute a momenti di silenzio durante i quali ha gli occhi lucidi. Gli stessi occhi che, la sera, avranno coloro i quali accorreranno al loro show. Ci siamo lasciati con “Anoraknophobia” ed è già tempo di “Marbles”: due dischi tanto differenti nel loro concetto quanto nel responso suscitato finora da parte del pubblico e della stampa. Come puoi spiegare questo enorme successo per il vostro nuovo disco? "Oddio, abbiamo avuto così successo?" (ride, nda). Direi di sì, considerando che non siete una band mainstream e che “You are gone” è stata in vetta alle classifiche UK, notoriamente popolate da musicaccia usa e getta… "Posso dirti che non è un caso. La gestazione dell’album è stata lunga: in tutto un paio d’anni. Il primo anno passato a suonare lunghe jam session, poi quattro mesi per gli arrangiamenti, senza contare tutto il resto del tempo per le registrazioni, la produzione e tutto ciò che comporta il lavoro ad un disco. Quando spendi così tanto tempo su un progetto dai davvero il massimo e, anche se può sembrare banale dirlo, sei convinto di aver fatto il miglior album del mondo…". Già, ma hai ben detto che è banale: lo dicono un po’ tutti, no? "Sì, ma è così. Ad ogni modo ogni volta che esce un disco noi stiamo con le dita incrociate, aspettando il verdetto del pubblico: perché, checché se ne dica, è molto importante il modo in cui il tuo lavoro viene accolto. A volte va bene, altre meno: per “Marbles” è andata benissimo, e un po’ ce l’aspettavamo, sono sincero!". Evviva l’onestà! E tornare in cima alle classifiche UK? Che sensazione da’ essere finalmente profeti in patria? E’ così importante avere un singolo nelle charts? "E’ incredibile quanto sia importante, certo! E’ incredibile quanto la gente parli di te perché sei in classifica per questo o quel singolo, quindi è un ottimo veicolo promozionale aver raggiunto una posizione del genere. Noi non siamo una band da singolo, non viviamo con un occhio rivolto alle classifiche e quindi siamo anche stati molto fortunati nell’aver raggiunto la vetta". E il vostro album con più singoli potenziali in assoluto, “Afraid of sunlight”, con il suo airplay da pop radiofonico? Quanta voglia c’era di arrivare in classifica? "Non era nato per arrivare in cima alle classifiche, non era un album “poppy”. Però sono d’accordo che certi suoni fossero molto commerciali all’epoca". “The invisible man” è un biglietto da visita che spariglia subito le carte in tavola per chi volesse avvicinarsi ai Marillion con uno spirito easy-listening. Ed erano molti anni che mancava un pezzo così intenso nella vostra discografia… "Credo sia una delle canzoni più intense, come hai detto tu, che abbiamo mai scritto. E’ stata una faticaccia, ha richiesto un lavoro pesante e anche una stesura che dal punto di vista emozionale mi ha provato moltissimo". E quei continui cambi di atmosfera, le urla del protagonista: quasi un musical… "Sì, i cambi si accompagnano alla canzone e a tutto ciò che fa da contorno. Abbiamo sempre scritto qualche pezzo oltre le lunghezze standard ed è stato bello tornare a farlo per quest’album. Sono molto orgoglioso di questa canzone che, insieme a “Neverland”, è quella che preferisco in assoluto". Finalmente uno che non ha paura ad esporsi. Sai com’è, gli artisti difficilmente fanno discriminazioni tra nuovi brani, però anche io adoro “Neverland” e soprattutto quel finale con le doppie voci, con tutti quegli effetti… "No, non ci sono sovraincisioni! L’eco che senti è fatto da me senza riverbero alcuno: sono io che canto in presa diretta e faccio il coro e la seconda voce: non c’è eco. Lo vedrai tu stesso stasera…" (e canta il ritornello per convincermi, nda) “Neverland” è l’idea di scappare dalla vita di tutti i giorni". E’ la tua ricetta per scappare qual è? "Non c’è ricetta, ci sei dentro fino al collo. Al massimo puoi ubriacarti". Ma tu stai bevendo caffè, ora! "E che pretendi, mi sono appena svegliato!" (ride, nda) "Io però ho la musica: è un modo anche per mostrare agli altri quali sono i conflitti che provo, per esternare tutto ciò che ho dentro di me e che spesso è in contrasto con mille altre cose. Da questo punto di vista la musica è per me una terapia e una forma di escapismo, ma la vivo in maniera positiva, non come un calderone dove buttare dentro tutta la negatività, l’ansia e la depressione. Nella vita di tutti i giorni sono relativamente allegro, ‘easy-going’, nonostante tutta la merda che vedo e che tutti vedono. Però la musica spesso viene fuori nei momenti in cui tutto ti sembra peggiore di come non sia in realtà, è quasi un riflesso incondizionato". Non voglio farti la solita domanda sul concept album e passo dirett… "Ti interrompo: questo non è un concept, tuttavia dopo molte interviste i giornalisti a furia di chiedermelo mi ci hanno fatto pensare e sono giunto alla conclusione che in parte sì, può essere considerato un album tematico". E il filo conduttore qual è? "It’s escaping" (segue un lungo silenzio, nda) "Ogni canzone, da 'Angelina' a 'Don’t hurt yourself' a 'Fantastic place': tutte parlano della voglia di rompere col presente e di andare altrove, cambiando luogo e persone". Quindi sono il primo a cui confessi che “Marbles” è un concept? "Diciamo di sì!" (ridiamo entrambi, nda) Sbaglio se dico che in alcuni tratti l’album mi sembra autobiografico? Soprattutto nella title-track, che fa capolino lungo il disco… "Hai centrato il senso! C’è un’espressione in Inghilterra, 'he lost his marbles', che si usa per indicare qualcuno che ha perso la ragione, che è prossimo alla pazzia. Sai, quelli che camminano per strada e parlano da soli… In questo senso si lega ad 'Invisibile man', ad esempio, al senso di solitudine e follia. Ma dietro “Marbles” c’è un altro motivo, anche. Quando ero ragazzino giocavo per strada con le biglie (‘marbles’, nda) ed era uno dei giochi più diffusi alla mia età. Chi vinceva si prendeva le biglie degli altri: insomma, più biglie avevi, e più eri importante nel tuo quartiere!". Il boss delle biglie, insomma… "Sì. Una volta, sempre con i miei amici, cominciai a giocarci anche con una racchetta da tennis: le colpivamo dal basso verso l’alto e le guardavamo salire su in cielo, sembrava non finissero più di andare su. Però un giorno sbagliai traiettoria e una ruppe il vetro di una vicina di casa. Per punizione mio padre me le sequestrò tutte e le diede ad un altro ragazzino con cui giocavo in strada e che, tra l’altro, era uno dei miei più acerrimi nemici… Fu una punizione terribile! Mi ci sono voluti trent’anni prima che lo perdonassi! “Marbles” è però anche un modo per tornare indietro con i ricordi, per recuperare quel po’ d’innocenza dell’infanzia. Quando credevo, insomma, che le biglie arrivassero davvero su in cielo". Ora capisco il senso di quei versi ('Did anyone see my last marble?') che fanno venire i brividi. Grazie, Steve. E ora sei più disincantato? "Guardati attorno, e dimmi come si può non esserlo" (parte qui una lunga discussione sulla guerra in Iraq, nda). Torniamo alle canzoni, tra le quali una mi ha colpito in particolare: 'Angelina'. Trovo interessante il contrasto tra una musica così pacata e quasi ‘soffice’, se mi passi il termine, e un testo ricco di doppi sensi e malizia. Com’è nata 'Angelina'? "Stavo guidando a Londra quando ad un certo punto ho alzato gli occhi e ho visto un gigantesco cartellone pubblicitario di Capital Radio, una grande radio londinese, con il volto di una bella ragazza e la scritta a grossi caratteri “Margherita takes requests”, che suonava un po’ ambigua… Nel senso che può voler dire che prende le chiamate degli ascoltatori per trasmettere i loro brani preferiti, ma si presta anche ad una seconda interpretazione, come quegli annunci delle accompagnatrici: se poi consideri che nella foto la ragazza ammiccava, era facile essere maliziosi". In effetti ho subito pensato alla storia di una prostituta, soprattutto dopo aver ascoltato il ritornello… 'lonely man’s best friend'… "E invece è una canzone dedicata ad una donna dj. Poi chissà, anche lei fa i pompini!" (ridiamo entrambi, nda) "In realtà è dedicata ad una donna che fa davvero questo lavoro, quello della dj notturna, e raccoglie le richieste degli ascoltatori insonni, o che magari lavorano nel cuore della notte: dev’essere affascinante ascoltare le storie di chi non dorme, ed è un punto di riferimento per i ragazzi che soprattutto di notte avvertono la solitudine". E tu? Scrivi di notte, magari quando sei di umore cupo? "E’ che in quei momenti ho forse più tempo per farlo, perché quando ti senti molto energico ed euforico l’ultima cosa che vuoi è sederti ad un tavolo e comporre della musica: in certi frangenti preferisci uscire, divertirti, stare con la tua famiglia, quindi è normale che l’ispirazione arrivi soprattutto nei momenti di solitudine". E non è mai ispirazione positiva? "A volte lo è. Tempo fa, ad esempio, stavo guidando per le campagne del Sussex, in Inghilterra, quando mi sono fermato a guardare il cielo e sono stato sorpreso dalla sua immensità e dalle nuvole. Era una giornata limpida, con un sole brillante e un clima mite nonostante fosse inverno. C’erano le scie lasciate da un gruppo di aeroplani tutte perfettamente parallele, e mi hanno ricordato le righe di un pentagramma… Poi le nuvole piccole nel mezzo, come se fossero note: è stata un’emozione fortissima. E così mi sono fermato in macchina a scrivere, dovevo canalizzare l’energia di quel momento". Non credi che ci siano artisti che sui loro drammi esistenziali abbiano costruito fortuna e carriera, magari marciandoci un po’ troppo sopra? "Sì ma è una cosa normale, non la condanno. A Londra, come saprai, c’è la tradizione dello “speaker’s corner” ad Hyde Park, dove ognuno va e monta sulla sua cassettina di legno e comincia ad accusare questo o quello. In tanti anni nessuno si è mai preoccupato di dire quanto fosse bello il mondo o di lodare l’amministrazione londinese per la pulizia della metropolitana. E’ assolutamente normale, quindi, che l’uomo necessiti di un moto generato da una situazione negativa per esternare ciò che prova e urlare in faccia agli altri quelli che sono i suoi dubbi e i suoi problemi. Ci sono artisti che lo fanno, altri che preferiscono parlare d’altro. Poi ci sono i songwriter per professione, che devono fare soldi e anche questo è un intento rispettabilissimo. Personalmente preferisco esprimere la mia visione delle cose senza dover riversare sugli altri le mie paure: mi piacerebbe solo accendere una piccola luce dentro chi mi ascolta, ma senza avere atteggiamenti messianici". E’ importante avere un rapporto quasi simbiotico con i fan, o preferisci conservare un’indipendenza anche dalle loro reazioni? "E’ bello, perché è una grande gioia ricevere certe mail. Ragazzi che ti ringraziano perché li hai salvati dal suicidio oppure perché li hai fatti riflettere o chissà cosa: è bello sapere che le tue parole vengono recepite da chi ascolta la tua musica. Nella maggior parte dei casi in molti ci scrivono sorpresi di come le loro emozioni siano identiche a quelle di cui parliamo noi, e in questo caso il rapporto tra artista e fan diventa una cosa unica… Un po’ come può succedere a chi si appassiona ad un romanzo e si ritrova nel protagonista. Da questo punto di vista sì, si può parlare di rapporto simbiotico". Un rapporto che, peraltro, si manifesta anche nelle vostre strategie di marketing che sono state rivoluzionarie prima e sono ancora moderne oggi: quanto è importante avere il controllo incondizionato della vostra musica? "E’ fondamentale. Quando hai due o tre manager non sai mai cosa accade, ora invece gestiamo tutto da soli o con l’aiuto di collaboratori che, prima ancora di essere nostri dipendenti, sono nostri fans e quindi perseguono lo stesso identico obiettivo dei Marillion. Se lavori con discografici o addetti ai lavori non sai mai quanto stanno realmente facendo per te, e quanto di ciò che fanno lo fanno per soldi o per passione: è una situazione terribile, se consideri che la fortuna di molte band dipende dalle persone che gravitano attorno al gruppo stesso. Noi abbiamo deciso di occuparci dei Marillion al 100% quando ci siamo accorti che un nostro vecchio manager per dieci anni si è arricchito sulle nostre spalle senza fare molto, anzi senza fare un cazzo di niente, per dirla tutta. C’è gente che prende soldi senza alzare un dito, ci sono manager che si presentano dicendo “quest’anno ho venduto 5 milioni di dischi”, come se li avessero suonati loro. Davanti a tutto questo schifo, abbiamo deciso di fare le cose per conto nostro: dal management al booking, fino all’ufficio stampa e alla produzione. Abbiamo tutto sotto controllo, ora. E non abbiamo mai avuto così tanti soldi: il nostro conto in banca è pieno zeppo di quattrini". Voi però siete una band piuttosto atipica, da questo punto di vista. Basta pensare a come avete accolto la sfida lanciata da internet e soprattutto al rapporto con i fan, a cui accennavo prima. E’ quindi il vostro un metodo che si può applicare ad altre band oppure è un’esclusiva targata Marillion? "Quando c’è stato il boom di internet, abbiamo subito capito che era impensabile fermarlo o arrestarlo: nessuno aveva allora i mezzi e nessuno li ha adesso. L’unica soluzione era quella di adattarci alla situazione in modo che questa giocasse a nostro vantaggio: ed ecco che, quando si lavora in maniera costruttiva, si ottengono i risultati. La mia opinione è che il music business sta finendo e tra poco la musica sarà gratis: tutto sommato se ci pensi lo è già ora". E i musicisti di che camperanno, di grazia? "Devono inventarsi qualcosa di nuovo, devono fare cose nuove. Ad esempio, suonare il più possibile in giro, raccogliendo nomi ai concerti, creandosi un proprio database, uno zoccolo duro di fan. E devono sapersi vendere direttamente, avere un rapporto stretto e diretto con chi li ascolta. E bada bene, devono vendersi ma non svendersi…". Facciamo finta che tu abbia vent’anni e un gruppo alle spalle: che fai? "Show. Li registro e vendo i cd a fine serata. Faccio il possibile per far girare il mio nome. Vendo solo gli album registrati in presa diretta ai concerti mentre i dischi ufficiali li metto in download sul mio sito…". Ora facciamo finta di tornare ancora più indietro: hai quindici anni. Avresti mai immaginato di diventare ciò che sei ora? "Quando ero piccolo avevo la sensazione divertente di essere l’unica persona vivente al mondo, come se tutti gli altri fossero delle comparse, o peggio dei manichini. Come in quel film, 'The Truman Show', hai presente? Credevo che tutti gli altri fossero frutti di un esperimento, credevo di essere l’unico… Questa sensazione mi ha accompagnato a lungo e il fatto che mi rendessi conto di questo, mi faceva davvero sentire esistente: era come se gli altri non ne fossero a conoscenza. Non saprei nemmeno come spiegartelo, è un concetto un po’ difficile… Da ragazzino volevo essere una rockstar, volevo avere una band. All’inizio per avere l’attenzione delle ragazze, perché di solito scelgono o chi sa suonare o chi sa giocare a football: e con il mio fisico avrei soltanto potuto buttarmi nella musica! (ride, nda) Ai tempi della scuola questo mi pesava, perché non ero particolarmente abile nello sport e quindi ero un po’ nell’anonimato. Però ora credo che da quella scuola non sia uscito nessuno più celebre di quanto non sia io ora, e questa è stata una sorta di piccola rivincita. A volte mi piacerebbe vedere le facce dei miei vecchi compagni: è passato molto tempo, vorrei far vedere loro chi è Steve Hogarth". Sono retorico: e chi è Steve Hogarth? "Uno che è riuscito a diventare musicista". (Marco Pugliese - kronic.it)