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20/12/2024
23/03/2023 DARIO DONT
''In base alle sensazioni che mi trasmette la musica cerco parole che possano valorizzarla al massimo...''
Ciao Dario. Il tuo background annovera vissuti con i collettivi Blank Dirt e, soprattutto, nei Don Turbolento. Cosa ti porti dietro da quelle esperienze? Senti che qualche influenza di quegli anni l’hai innestata nel tuo primo lavoro solista? ''Ciao Max, i Blank Dirt sono stati il primo gruppo nel quale ho scritto canzoni, lì le influenze erano prettamente rock e, anche se non faccio più cose che somigliano agli WHO, sicuramente mi è rimasta nel DNA quell’attitudine. Di sicuro però l’esperienza che ha lasciato i segni più evidenti è quella dei DON TURBOLENTO, dove i pezzi erano più a fuoco, scritti con una grande attenzione alla forma, struttura e dove i riferimenti erano molto più vari, dall’electro pop al punk funk al metal''.
“Gran jeté” è, appunto, il titolo del nuovo disco che annovera 12 brani. C’è, in qualche modo, un fil-rouge che li accomuna oppure hai preferito trattare tematiche singole? ''Non direi ci sia un fil rouge, almeno non consapevole, quello che accomuna questi pezzi è che sono quasi tutti stati scritti in un periodo in cui i DON TURBOLENTO si erano fermati senza prospettive future e io non avevo in mente progetti solisti, per cui era un lavoro destinato solo a me stesso''.
Affermi che “i testi seguono un flusso di coscienza, probabilmente una corsa contro il tempo che ti allontana dall’obiettivo”. Un modo per dire che, quando transita l’ispirazione, occorre afferrarla al volo prima che passi? ''Quella frase è riferita ad un pezzo specifico, “Non fare rumore”, quando mi è stato chiesto cosa significasse il testo ho cercato di interpretarlo perché non me lo ero mai chiesto. Di solito non scrivo in questo modo, ma in questo caso ho buttato giù le parole di getto pensando solo alla sensazione immediata che mi davano e a suono e metrica''.
La copertina è impreziosita da un’opera del celebre pittore statunitense Joseph Piccillo. In che occasione l’hai conosciuto e come l’hai convinto ad accettare la tua proposta per la cover? ''Semplicemente cercando online qualcosa che si potesse legare al mio titolo ho trovato questa opera, secondo me bellissima, così mi sono messo in contatto con Joseph, gli ho spiegato il progetto e lui mi ha gentilmente concesso l’utilizzo dell’immagine''.
Già tre i singoli estratti: “Neve”, “Non far rumore” e “A metà”. Ce ne parli? ''Io scrivo sempre prima la musica e poi i testi, in base alle sensazioni che mi trasmette la musica cerco parole che possano valorizzarla al massimo, o almeno non la snaturino.
“Neve” è un brano molto dilatato e parla di una sensazione di irreparabiltà di fronte ad un errore, quando l’ho scritta pensavo all’irreparabile per eccellenza, cercavo di mettermi nei panni di un assassino che invoca inutilmente qualcosa che possa cancellare ciò che ha commesso, ma non vado mai troppo nello specifico perché mi piace pensare che ognuno la possa leggere in modo diverso e farla calare nella propria esperienza.
Del testo di “Non fare rumore” ti ho già parlato, per cui mi concedo il lusso di descriverne la musica. Come in molti brani di questo disco ho voluto fare esperimenti, in questo caso ho voluto distinguere nettamente un momento 'A' da un momento 'B' e fare in modo che il brano finisse in una maniera assolutamente inaspettata.
“A metà” è uno dei brani più vecchi musicalmente, probabilmente la prima versione in inglese risale al 2010, ed è uno dei rarissimi nati dalla chitarra, il testo in italiano invece è del periodo in cui i DON TURBOLENTO hanno cessato la loro attività e sembrava che la musica fosse destinata ad uscire dalla mia vita''.
La tua ricerca sonora è sicuramente di gran pregio, immersa in una atipicità cantautorale non dozzinale: un processo che sicuramente comporta un impegno immane, no? A chi maggiormente fai riferimento per le tue composizioni? ''Il lavoro che abbiamo fatto, prima io da solo in fase di scrittura e pre produzione e poi con Michele in studio, è stato sempre mirato a non avere mai momenti banali o riempitivi. Ci abbiamo lavorato veramente molto e siamo arrivati ad un punto in cui ogni volta che ascoltavamo uno dei brani a caso ci dicevamo “beh, questo è il pezzo migliore”, ne sono molto fiero. Non ti so dire a chi faccio riferimento per le mie composizioni, ho ascoltato tantissima musica nella vita e penso che tutto quello che ho assimilato abbia contribuito a creare il mio stile''.
La musica può essere paragonata ad un “grande salto” nel quale lo jeté esprime la forza esplosiva da immettere per spiccare una stimabile elevazione artistica? ''L’immagine del Grand Jeté mi piace proprio perché si può prestare a varie metafore, per me questo grande salto rappresenta una affermazione di sé che avviene grazie al distacco dal suolo che si è calpestato (danzando, si intende) fino a quel momento, è un salto difficile, pericoloso e che può anche andare malissimo, trovo sia tuttavia meravigliosa anche solo la volontà di compierlo''. (Max Casali)