PLASTIC FARM ANIMALS  "L'oro del precipizio"
   (2023 )

A tratti, durante l’ascolto di questo disco, ammetto di avere avuto un filo di paura. E non sono esattamente uno che ascolta Chopin, almeno non di frequente.

Non molta paura, perché insomma, in fondo è pur sempre solo un insieme di canzoni: però la sensazione di doversi fermare a prendere una boccata d’aria mi ha perseguitato per trentatré minuti, tanto dura “L’oro del precipizio”, prodigioso debutto dei Plastic Farm Animals su etichetta Overdrive Records.

Formati da Francesco Villari, Domenico Sofia, Gianni Cusumano e Paolo Verduci (rispettivamente voce, basso, chitarra e batteria, tutti provenienti da precedenti esperienze in altre formazioni), nascono a Reggio Calabria nel tardo 2019, diciamo poco prima della peste 2.0, e propongono una versione del tutto personale del genere più bello che esista, con buona pace degli animi miti e soprattutto delle orecchie delicate: parlo ovviamente del post-hardcore, ossia la meravigliosa decadenza (superamento? Evoluzione?) dell’hardcore, incanalato verso forme ancora più estreme e – qui è il bello – imprevedibili.

Rimane sì dritto e frontale, fragoroso e veemente, ma divaga, si allarga, si contorce mentre spinge per uscire dal bozzolo. Consacrato ad un mood intimamente violentissimo, acquista sfumature cangianti, cerca con insistenza un espressionismo sovraesposto che varca ben volentieri ogni limite autoimposto; il canto – che oscilla tra prevalente screamo e sporadiche parti recitative (“Il magnifico”) - è incalzante, rabbioso, rigonfio d’astio, di problemi, di insoddisfazione, ma anche di paure, incertezze, fondamenta che crollano. I testi sono lampi, brandelli, frammenti, abbozzi di idee (“La ballata delle contraddizioni”); procedono per immagini, accostate tra loro con la stessa vivida veemenza che caratterizza l’andamento della musica. La quale – ça va sans dire – è una carica a testa bassa, una raffica – se preferite – di elettricità satura e disturbante, una scarica di mitragliate ad alzo zero (“Cara la notte”, quasi i Motörhead), che fa tabula rasa di qualsiasi ipotesi di lievità, sia essa concettuale o d’intrattenimento.

Sprazzi di memorie wave (“Povero re”) fanno capolino nel frastuono generale, sorprendentemente bucato da singalong mascherati (“Diluvio universale”), sommersi da grida parossistiche e dal martellamento incessante di un drumming forsennato. Tracce di Morso, Marnero, Laghetto, Lleroy, ma perfino del primo Teatro Degli Orrori (“L’oro del precipizio”), guidano attraverso il labirinto buio di un album che inghiotte in un buco nero tutto il bello che avevate in mente: “è un punto di vista sulla bellezza, sul pericolo della bellezza”, recita la cartella stampa.

Quella stessa bellezza che - nel frattempo - è appena morta, uccisa in trentatré minuti. (Manuel Maverna)