DON RODRIGUEZ "10d10"
(2022 )
Ad una certa età, si riconosce bene quella sensazione, ché passano i giorni, ma le passioni mai: bastano i primi cinque o sei secondi di una canzone – facciamo dieci – perché in testa, anima, cuore riaffiorino gli stessi antichi brividi del tempo che fu. “A piedi pari” ce ne mette dodici di secondi per completare il giro di chitarra che apre “10D10”, terzo album in otto anni su etichetta Dischi Soviet Studio per il trio piemontese DON rodriguez, delizioso segreto conservato in una delle molte nicchie del mai abbastanza decantato indie nostrano.
A quattro anni da “La sostanza dei fatti”, a otto dal debutto de “L’indimenticane”, arrivano queste dodici canzoni e trentanove minuti che mischiano abilmente rimembranze new-wave (va sempre bene) e piccole divagazioni post-punk (va sempre bene), fuse in brani essenziali che - semplicemente – funzionano, magari perché aggiungono all’impasto quel pizzico di cant-autorialità che non sfigura mai.
I capisaldi sono i soliti, e ben vengano: mid-tempo, cassa in quattro, basso dritto incastrato a dovere, chitarra che fa il giusto, canto misurato mai sopra le righe, testi che narrano sì storie ben precise riferite a personaggi e situazioni, ma con scrittura volutamente ermetica, come tale plasmabile ad libitum nel caso testa, anima, cuore volessero mutare scenari.
Così, i vari “Walter”, “Giovanna (di via Paruta)”, “Cristiano”, soggetti in carne ed ossa (Donato Bilancia; un ricordo di gioventù; Chris Cornell), diventano la parte per il tutto, archetipi, spunti, e va benissimo, perché è ciò che si chiede a questa musica a suo modo antica, particolare ed universale al tempo stesso.
Largamente declinato in tonalità minori, l’album conserva intatta una garbata compostezza, di rado alzando i giri o inasprendo il tono generale. E’ morbido benché squadrato, aperto talora a soluzioni melodiose dalle parti dei Baustelle (“Nuvole blu #2”), profondo quando occorre, mai superficiale o ridondante. Va subito al punto in pezzi da tre o quattro minuti, non disperde il seme, fa quello che deve fare, senza vanificare le molte idee che ha.
Non sbaglia una virgola, dalla cadenza mortifera di “Kubrett” (su Sir Ernest Shackleton) alle memorie amare di “Sei sempre uguale”, con quel basso che ti scava nello stomaco un solco come – di nuovo – al tempo che fu, dalle atmosfere Marlene Kuntz di “Ora ed allora” e “Cambiare” al pop mosso à la Niccolò Contessa di “Voltaren”, giù fino alla mesta ballata di “Splendorion” che chiude su un desolato rallentamento intriso di melanconia malaticcia.
“10D10” è un mirabile compendio di contrizione, una sequenza ininterrotta di variazioni di grigio rischiarate da sporadici lampi di luce, un lavoro da amare ben oltre la compassata afflizione che suggerisce.
E’ un disco semplice, in fondo. E splendido. Tutto qui. (Manuel Maverna)