PHILL REYNOLDS  "A ride"
   (2022 )

Un cantautore che si muove tra Nick Drake e Paul Simon? Bella premessa e promessa. Vediamo.

L'album di Phill Reynolds è una lunga cavalvata tra canyon e boulevard modernissimi, sulla scia di Bruce Springsteen e anche Peter Gabriel (''In the dark''). Ma il nostro non si fa mancare nulla e quindi nel cocktail troviamo anche momenti che potremmo dire psichedelici e dark, c'e solo da immaginarsi uno così, con questo lignaggio e queste ambizioni, in mano a un produttore come Rick Rubin o Brian Eno a seconda che si voglia enfatizzare il pedale tradizionalista e conservatore o quello progressista e sperimentale per immaginare cosa ne verrebbe fuori.

Alla faccia dell'indie, questo merita un posto tra i migliori. E dove non arriva la voce arriva la musica. Potente, evocativa, mai da lasciare in sottofondo. Una musica che chiede ascolto, e anzi piu d'uno per essere apprezzata come un buon brandy, anzi penso sia piu affine all'armagnac, volendo azzardare un altro ardito accostamento di quelli che faceva sull'Espresso fino agli anni Novanta del secolo scorso il mai a sufficienza rimembrato Luigi Veronelli nelle sue recensioni vinarie.

Phill è umano, ossia bianco e nero al contempo, positivo e negativo, introspettivo e aperto al mondo senza essere piacione, sobrio in un mondo di pazzia, con ballate che parlano di un modo antico di fare canzoni e musica. Voce dolente e blues quando occorre, a tratti malinconica, a tratti piu tesa e arrochita da rabbia e indignazione e con chitarre di alto pregio, che guardano alla tradizione solistica di geni inarrivabili e purtroppo mancati anzitempo come appunto il citato Nick Drake (leggete a tal proposito il bel libro di Ennio Speranza sul suo album "Pink Moon").

Ma tra numi tutelari metterei anche la voce desperada di Johnny Cash per questo country blues di buona fattura e di grandi ambizioni. Sono un devoto di JJ Cale e cose del genere le capisco, e devo riconoscere (vedi per affinità elettiva con l'eccelso di Tulsa - che Dio l'abbia in gloria e ci conservi Christine Lakeland quale sua musa e custode - un brano come "Man in a suitcase") che quando c'e la qualità in tale foggia e in tale misura la differenza si sente, se non si hanno le orecchie foderate di prosciutto ossia assuefatte al 99% della fuffa che passa per le misere cuffiette con cui si ascolta la musica oggi. Voto, in sintesi, un bell'8. (Lorenzo Morandotti)