RYO OKUMOTO "The myth of the mostrophus"
(2022 )
Parto dal fondo, ex-abrupto: basterebbe la presenza di ospiti a dir poco prestigiosi, dai compagni Spock’s Beard come Alan Morse – chitarre - e Dave Meros, basso – Nick D’Virgilio dietro le pelli e al microfono con Ted Leonard - “un certo” Steve Hackett e Marc Bonilla con le loro chitarre (il richiamo ai dischi di quest’ultimo col mitico Keith Emerson è doveroso… mi fermo qua) a giustificare, come si suol dire, “il prezzo del biglietto”. Il disco tuttavia è molto di più: chi si aspetta la solita parentesi solista del componente di una grande prog band, magari sfornata in un momento di pausa dalle attività del gruppo, autocelebrativo ed insapore, è destinato a cambiare parere. The Myth of the Mostrophus, quarto solista del tastierista di Osaka dopo A Making Rock, 1980, Syntethizer, 1981, uscito ben vent’anni dopo Coming Through (2002), entusiasma dalla prima all’ultima nota per la sua dinamica, freschezza, energia, maestria tecnica e cura dei particolari.
Una volta inserito nel lettore ci si imbatte in un caleidoscopio emozionale caratterizzato da un vorticoso susseguirsi di sensazioni gradevoli ed energizzanti (comunque sempre soggettive, legate ai mille fattori della variabilità individuale, umore compreso), alternate da qualche calibrata pausa melodica, fino alla immancabile suite finale di 22’ che dà il titolo all’album. Pur con influssi di varia estrazione che riflettono il ricco curriculum dell’autore, il disco è molto Spock’s Beard-oriented, per alcuni forse anche troppo, ma potrebbe essere diversamente essendo stato prodotto dall’anima tastieristica dell’affermata formazione neo-progressiva statunitense presente dal secondo album (Beware of Darkness, 1996) all’ultimo (eccellente) Noise floor (2018)?
E il buon Ryo di tecnica e gusto ne ha da vendere (la collaborazione con gruppi e musicisti del calibro di GPS, K², Phil Collins, Eric Clapton e John Payne – Asia, sarebbe già una garanzia), una tecnica puntualmente messa a servizio del risultato finale espressa con grande partecipazione emotiva dal vivo, a smentire lo stereotipo del giapponese come tipo compassato. Consigliatissimo in qualunque momento della giornata, ma con un suggerimento particolare: provate a mettere The Myth of the Mostrophus nel lettore o nel giradischi quando, con o senza motivi, il mondo vi appare grigio, alzate un po’ il volume dell’amplificatore e, come cantava il grande Jannacci, “vedete di nascosto l’effetto che fa”: ne potreste scoprire delle belle. (MauroProg)