DONA FLOR  "Les voyages extraordinaires"
   (2022 )

E’ una questione personale, ma dischi come questo sono un piacere indescrivibile.

Cioè, lo si può descrivere eccome, magari esagerando: è un po’ come godersi “All my loving” dei Beatles dopo la Quinta di Mahler, o “Judy is a punk” dopo tutto “Lateralus” dei Tool. Si chiama relax, o beatitudine.

E’ come lasciarsi finalmente sopraffare da un ascolto liberatorio, cedendo al canto di sirena della bellezza semplice e immediata anzichè a quella nascosta e cerebrale che talvolta andiamo cercando nell’incessante, ostinata caccia al Sacro Graal.

Autori del piccolo prodigio intitolato “Les voyages extraordinaires”, pubblicato su etichetta Maremmano Records e secondo album in carriera, sono i Dōna Flor, quartetto lombardo nato nel 2015, formato da Cecilia Fumanelli, Simone Riva, Max Confalonieri e Max Malavasi, coadiuvati per l’occasione da Raffaele Kholer, Giulia Larghi e Miriam Valvassori. I quali suonano rispettivamente tromba, violino e arpa, giusto per non farsi mancare niente.

Il progetto è ricco, l’album – ça va sans dire - è perfetto.

Non sbaglia una canzone, anzi: ne mette in fila dodici in quarantadue minuti nei quali non albergano una nota storta, un arzigogolo armonico, un azzardo temerario. Non richiede chissà quale impegno cervellotico, analisi metatestuale, scavo psicologico, dotta disamina semantica: è bello perchè sa conservare intatta una passionalità intima, una viscerale sincerità, un sentimentalismo che si offre nudo agli astanti nella sua compostezza gentile.

E’ un disco triste, eppure paradossalmente aperto a squarci di abbagliante solarità; malinconico come un addio o come un ricordo toccante, traboccante di tonalità minori, preso per mano dalla voce suadente di Cecilia, fil-rouge che lega sensualità e trasporto emotivo in un milieu capace di ospitare tanto, tantissimo Sudamerica insieme a pillole di jazz, flamenco, suggestioni balcaniche, divagazioni mariachi e alt-folk.

Largamente cantato in spagnolo, si concede ad altri idiomi in varie occasioni: all’inglese in “Mother tell me why” - arpeggio bucolico tra Mary Gauthier e John Fullbright – e nella conclusiva “Wild wind”, che chiude su un’aria quasi celtica à la Loreena McKennitt; al francese e all’arabo nel caracollare mediorientale di “Bonjour soleil”; all’italiano in “Ballata alla luna”, ammantata di una inconfondibile aura deandreiana.

Il resto è un tripudio latino che a comun gaudio impera, dall’irresistibile opener “Llanto y ardor” – verse-chorus-verse da mandare in repeat - al tempo dispari di “Mìrame a la cara”, dal ballabile languido di “Tu sombra” alla morna afflitta di “Évora”, dall’habanera di “Veinte Años” (cover di un brano del 1935 portato a notorietà dalla cantante cubana Maria Teresa Vera) all’eco andina di “Vete al bosque”, dalla tromba struggente di “Mujer” alla sublime indolenza di una “Utopia” che il contrabbasso scioglie in un abbraccio avvolgente.

Quando impiego più di due settimane a recensire un disco, il mio direttore mi tira le orecchie. Per “Les voyages extraordinaires” ne ho impiegate tre, ma non perché lo abbia tenuto troppo a lungo nel cassetto: semplicemente perché continuavo a riascoltarlo.

Il direttore ha fatto lo stesso: ha ascoltato a sua volta, ha capito, mi ha perdonato.

Ma è una questione personale, sia chiaro. (Manuel Maverna)