LE PIETRE DEI GIGANTI  "Veti e culti"
   (2022 )

Plumbeo e fosco, intriso di suggestioni misticheggianti e circondato da un alone misterico, “Veti e culti”, pubblicato per Overdub Recordings a tre anni dal debutto di “Abissi”, è il secondo album del quartetto Le Pietre Dei Giganti, formato da Lorenzo Marsili, Francesco Utel, Francesco Nucci e Niccolò Pizzamano.

Sorretto musicalmente da un impianto psych talora venato di echi prog, sludge e stoner (“Foresta II – la bestia”) e da testi che flirtano con un esistenzialismo elegantemente declinato in liriche profondamente rifinite, richiama negli episodi più morbidi ed elaborati perfino certe atmosfere dei Litfiba di “17 re”, dei Verdena di “Solo un grande sasso”, dei Dorian Gray di “Moonage mantra”, mentre altrove a prevalere è un cupo sentire riversato in brani complessi e sfaccettati.

Album inafferrabile, difficilmente catalogabile, a tratti indefinibile, erge ad atout distintivo l’aura di ritualismo pagano che lo ammanta: impreziosito dall’artwork di Ketty Galli, realizzato sullo scatto di Marco Barbieri, noto con lo pseudonimo di DEM, eclettico artista lombardo che insiste da anni sull’esplorazione del legame tra naturalismo e ancestralità, “Veti e culti” propone nove tracce impregnate di un sinistro afflato sciamanico, magistralmente incanalato lungo percorsi mai lineari né accomodanti.

In perfetto equilibrio tra antropologia culturale e rilettura sincretistica di stili e sottogeneri, sa ondeggiare con nonchalance dall’oscurità tardo-romantica al decadentismo per il tramite di un immaginario condensato in trame talvolta opprimenti, di rado aperte ad una fruibilità immediata. Fra tribalismi insistiti, contrappunti inattesi (pregevole la tromba di Luca Benedetto in “Foresta III – l’ultimo crepuscolo” ed in “Polvere”), canto espressionista (“Ohm”) e virate repentine verso direzioni impronosticabili (la violenta bastonata di “Piombo” cala furiosa a breve distanza dall’hardcore, eppure “Polvere” lambisce David Sylvian), la chiusura è sospesa su un che di maligno e definitivo, coerentemente affidata al blues storto di “Quando l’ultimo se ne andrà”, nel segno di quell’occulto primitivismo che regna sovrano per quaranta minuti di musica densa, tortuosa, sofferente. (Manuel Maverna)