DEWAERE  "What is pop music anyway?"
   (2022 )

Per avere una vaga idea di quello che succede nei quarantuno minuti di “What is pop music anyway?” - secondo album del quartetto bretone Dewaere pubblicato per À Tant Réver du Roi a quattro anni dal chiassoso debutto di “Slot logic” – provate ad immaginare Alex Kapranos che canta pezzi scritti da Julian Casablancas.

Ecco: nemmeno così vi avvicinerete comunque più di tanto al fragoroso marasma che agita le undici tracce di un album a dir poco esagerato, una botta di vita che scuote canzoni nervose, energiche, rumorose.

Magari già sentite quanto a mood generale, ma decisamente imprevedibili negli sviluppi a breve e brevissimo termine: del prossimo brano non sai prevedere nulla, se non che sarà un’altra martellata come e più di quello che lo ha preceduto.

Privo sì di cedimenti, ma rispetto all’esordio scopertamente incline a concedersi alla melodia, mette in fila una sequenza ininterrotta di canzoni sia potenti che dispettose: tra bassi spaccaossa, chitarre acidissime e ritmi incalzanti, l’interpretazione schizoide del frontman Maxwell Farrington – timbro profondo alternato ad impennate psicotiche nella migliore tradizione della musica cattiva - sventra a suo piacimento qualsiasi cosa gli capiti a tiro, con una furia che lambisce il garage-rock – echi di mr. Osterberg qua e là - e flirta impudica con scorie di post-punk vario e detriti di noise, che è come dire tutto e niente, ma rende bene il concetto. Eppure conserva un’eleganza formale invidiabile, sostenuta da arrangiamenti furbi e da una produzione calibrata ad arte per far male, ma non troppo.

Rabbiose scariche di feedback e un riff imperioso devastano “Clink and cluster”, lontana parente della follia sghemba dei That Petrol Emotion; tribalismi esitanti ed incombenti introducono i sei minuti di “Voilà, now you’re old”, dapprima simile ad una contorsione degna di Scott Walker, poi straziata dal parossistico ingorgo che da metà in avanti la sommerge sotto una coltre di elettricità disturbata, trafitta dalle urla convulse di Farrington e suggellata da trenta secondi di rumore bianco.

Tutto è costantemente sovraesposto, tendente al bailamme (le grida sguaiate sull’aria beatlesiana di “The pretty one”), con quella propensione al riff che era addirittura predominante in “Slot logic” e che ritorna prepotente un po’ ovunque; ma non mancano tentazioni & suggestioni che indirizzano verso una specie di noise-pop à la Therapy? il ritornellone brutale di “Make it in the morning (shake it in the night!)” o che levigano la languida aria retrò di “Satellite” fino a farne qualcosa di indescrivibile tra Sublime e Sugar Ray.

Dall’apertura nevrotica di “My shangri-laaa” alla ninna-nanna che chiude l’album sulla coda avulsa e spiazzante di “Everybody wants one now”, scorre irrequieto uno show indefinibile tra vestigia di Interpol, Bowie, Julian Cope, Husker Du, Strokes (“Taiwan, Ireland and Japan”), il tutto mischiato e shakerato a generare un ibrido caotico, vibrante, deliziosamente violentuccio.

Affascinante e coinvolgente, in un suo bizzarro modo che dirvi non so. (Manuel Maverna)