MADRUGADA  "Chimes at midnight"
   (2022 )

Mi fa un certo effetto ascoltare una nuova uscita dei norvegesi Madrugada.

Ma chi sono sti Madrugada? Eh già, perché questo nome potrebbe essere conosciuto da molti, ma non da moltissimi.

Come una piacevole botta, ricordo il loro esordio di “Industrial Silence” che, ancora oggi, potrei definire l’esordio migliore del 1999 (ma è già passato così tanto tempo?); e poi una serie di album dignitosi, anche se non proprio paragonabili al citato, fino alla tragica scomparsa di Buras, primo chitarrista del gruppo.

Il dolore consentì alla band solo di ultimare l’album iniziato con l’amico, ma non di proseguire l’avventura. Titoli di coda nel 2008. Ma recentemente a Sivert Hoyem e al resto dei Madrugada è tornata la voglia di rivedere il palco; poi, da cosa nasce cosa ed eccoci di fronte ad un nuovo album, quasi tre lustri dopo l’omonimo lavoro del 2008.

Quell’esordio fu così brillante da farci venire in mente i cattivi semi di Nick Cave, se non fosse che l’australiano avrebbe venduto l’anima al diavolo per poter scrivere, in quegli anni, composizioni così ispirate.

Questo nuovo lavoro vive molto su un perfetto equilibrio fra tasti e 6 corde, in un contesto in cui la voce di Sivert Hoyem si inserisce con il suo cantato profondo e caldo.

In “Running from the love of your life” ci ritorna un gruppo dal sound più americano e meno europeo; “Stabat mater” è così tristemente interpretata da sembrare un omaggio a Leonard Cohen e “Call my name” è una delle tracce che ricorda i migliori Madrugada.

La band impara anche ad avvicinarsi, riuscendoci, ad un certo pop leggero (“You promised to wait for me”), “Empire blues” è una delle migliori e “Help yoursel to me” è una ballad un po’ troppo strappa culi.

Ci si chiederà se e cosa sia rimasto dopo tanto tempo. Come suggerisce il titolo, la band pare abbia voluto sfornare una musica da ascoltare in tranquillità quando sta per arrivare la mezzanotte. La bella voce baritonale di Hoyem è la firma rimasta più intatta, per il resto rimane un lavoro poco più in su dell’appena dignitoso; un disco che si ascolta senza fastidio, ma senza troppi sussulti. E se la noia volesse fare capolino, si potrebbe optare per il vecchio (sigh) “Industrial Silence”. Quasi quasi lo riascolto. Mi sto proprio chiedendo quanto della sua magia sia rimasta ancora in quei pezzi. (Gianmario Mattacheo)