JOACHIM BADENHORST'S CARATE URIO ORCHESTRA  "Cosmos"
   (2022 )

Batteria, chitarre elettriche, basso elettrico, contrabbasso, corno francese, sax tenore, tromba, clarinetto, sintetizzatore, elettronica, voce narrante. Secondo voi, cosa può uscire con una siffatta strumentazione? La Joachim Badenhorst's Carate Urio Orchestra.

La formazione si autodefinisce jazz/indie/post rock/noise. In pratica, tutto e niente. Eppure, per quanto bizzarro sia l'accostamento, effettivamente coesistono elementi dei quattro ambienti, nell'album “Cosmos”, uscito per Klein 11 Records.

Il concept attorno al quale gira il disco è una storia di fantascienza post apocalittica: il pianeta è morto, solo ciò che è rimasto dentro una biosfera di vetro, è sopravvissuto: un uomo, tre rane, 13 tipi di muschio e 12 tipi di felce. Per descrivere questo ambiente, ne esce una musica straniante, a volte stridula, a volte dilatata in un'ambientazione allucinata, come quella di “Doug”, a cui però segue un inciso costante e regolare dei fiati che diventa febbrile, allarmante.

“Mechanical pencils” presenta quel che annuncia il titolo: rumori di matite, sotto una melodia synth vivace e curiosa, mentre la batteria per un po' viene lasciata sola a improvvisare, come in una tipica situazione jazz (e uno). Le voci intervengono con un andamento scazzato, per l'appunto indie (e due). La voce narrante si fa accomodante da ascoltare solo con “It was just the beginning for them”, dove finalmente ci viene narrato il concept centrale. Oltre alle fasi improvvisate, che sfociano volentieri nel noise (e tre) elettronico e nella dissonanza, ci sono tessiture chiaramente composte.

La sezione fiati impersona la rana, nell'introduzione di “The frog choir”. Quando parte la batteria, siamo dentro una situazione parecchio divertente, col basso pulsante, il synth dal sound deviato e deviante, mentre “Holy book” resta nella dilatazione temporale, che fa proseguire la narrazione. L'improvvisazione synth incontra il contrabbasso, strumento che si prenderà tanto spazio nella seguente “Some 100.000 years”, lenta e funerea, ma surreale, specie quando i fiati iniziano una fuga di note, ma al rallentatore. Mentre il batterista a momenti sembra che molli le bacchette sui fusti, per sentire cosa succede.

“New home” conclude il racconto attorno alla rana, ed era lei che si chiamava Doug se ho capito bene, e il disco si chiude con “Lil' Doug”. Qui il batterista si ripiglia e avvia un ritmo andante regolare. E tutta la Carate Urio Orchestra conclude un brano, se non “normale”, quantomeno strutturato, con una morfologia definita, sempre condita da una certa malinconia (ed eccolo qui il post rock, abbiamo trovato tutti e quattro gli elementi annunciati), ma al contempo di una certa intenzione sperimentale.

Che dire, l'idea è molto curiosa, ma impegnativa. I colori sono diversi ma non vengono sfruttati come vivaci contrasti, anzi, si utilizzano le sfumature più tenui di ogni stile. Bisogna avere una certa predisposizione, per affrontare questa narrazione musicale, raffinata anche quando vuole essere caotica. (Gilberto Ongaro)