RICHARD JAMES SIMPSON "Sugar the pill"
(2022 )
Siamo nella bocca del lupo. E c'è chi gioca a fare Dio. Il tempo è un fiume, il rosa è indolore, e l'amore diventa uno straniero. No, non mi sto perdendo in deliri filosofici. Sto solo traducendo in italiano alcuni titoli del terzo album solista di Richard James Simpson.
“Sugar the pill” prosegue il percorso dell'artista californiano, ex frontman dei Teardrain, da sempre intriso di approccio sperimentale, all'interno del contesto punk americano. Uscito per Rehlein Music, si apre con un'inquietante voce in “Evaporating people”, che dice: “I'm scared. Don't be. I'm scared. Don't be”. Poi parte la scarica elettrica. “Starry hope” è un rock andante: il suono ammicca al grunge, e l'andamento è stanco, flemmatico. Dopo una piccola digressione industrial col minuto di “Sleep”, arriva il noise abrasivo di “Consensual telepathy”, con piccoli momenti in reverse. Eccolo qui, il suono sperimentale. Il brano termina con un'altra frase dicotomica inquietante: “Everyone is happy, but no one is free. Everyone is free, but no one is happy”. Davvero non c'è modo per essere sia felice che libero?
Il rullante in battere ci carica, per iniziare a pogare con “We're in the wolf's mouth”, brano che si presta ad essere quello di punta. Non tanto per orecchiabilità (che non è la prerogativa in questo ambiente), ma perché riassume il messaggio trasversale dell'album. Un suono nasale apre “Playing God”, che poi si rivela una sorta di disco-punk, che per un momento fa ricordare i Clash. Fortissimo il minuto e quarantasette secondi di “Whitney says”. Una voce descrive un luogo dove sta male, tra rumori di elicotteri lontani e un cupo vocalizzo. E poi, distorsioni di chiusura.
“Time, the river” ha una connotazione onirica, quasi lynchana. Atmosfera plumbea per via dei suoni umidi, con un ritmo costante di batteria col rullante senza cordiera (quindi molto tambureggiante), e un sinistro carillon alla fine. A sorpresa, dopo questa tetra situazione, arriva un brano per piano e voce, molto dolce: “Take it back”. Ma si torna presto a sperimentare con “John can't hero”, tra suoni ariosi e voci che sembrano provenire dall'interiorità.
“The pink is painless” è un doloroso susseguirsi di acuti lancinanti, respiri, clima distorto e paura. Qualcosa su cui Fincher si divertirebbe a girare qualche scena di disagio. Altra grossa sorpresa, idiosincratica rispetto all'intenzione generale del disco, è la finale “Love becomes a stranger”, con una chitarra acustica che fa accordi eleganti in settima maggiore, suoni d'orchestra da yacht rock, e una melodia raffinata. Cioè, è davvero molto bella, ma che ci fa qui? Sembra uscita da un altro album, e contraddice tutto il disagio ricercato finora con lo sperimentalismo! Ma è come “Take it back”, una testimonianza della poliedricità e della libertà di Richard James Simpson. Speriamo che almeno lui, oltre ad essere libero, sia anche felice. (Gilberto Ongaro)