BLACK TAPE FOR A BLUE GIRL  "The cleft serpent"
   (2022 )

Arduo stabilire con certezza se la musica eterea, impalpabile, sfuggente – eppure così densa, intensa, suggestiva – dei Black Tape For A Blue Girl sia una calda coperta per l’inverno oppure una porta socchiusa sull’abisso.

E’ sempre la stessa sensazione, dagli esordi datati 1986 ad oggi.

Musica avvolgente, morbida e desolata, che sa sondare i recessi più reconditi dell’animo e della psiche, appoggiata su testi introspettivi, concisi, evocativi; apparentemente semplici, in realtà colti e cesellati come piccoli gioielli letterari, mirabilmente calzanti all’immaginario introverso e problematico che tratteggiano.

E’ una seduta di analisi, un incessante scavo che lambisce, talvolta toccandolo, il bordo del baratro. Altrove, ad insinuarsi tra fitte nebbie melodrammatiche è invece una melanconia diffusa, mai greve, che aleggia come uno spettro gentile su tessiture diafane ed arie svenevoli tra echi di David Tibet, Dead Can Dance, Matt Howden, Lycia.

La creatura di Sam Rosenthal vara per “The cleft serpent”, tredicesimo album in trentasei anni, una formazione inedita, affidando il canto a Jon DeRosa ed il violoncello a Henrik Meierkord, con Sam a riservare per sè – oltre alla scrittura dei pezzi – elettronica e synth, definendo i contorni di un cosmo rovesciato col suo dolente, funereo, sinistro corollario di pena e perdizione, solo di rado rischiarato da un tenue barlume di redenzione.

Dipingendo un mondo stile-Bosch al crepuscolo, tra istinti suicidi (sublimati ad esempio nell’aura chiesastica di “The trickster”) e fosco esistenzialismo (l’opprimente allegoria di “Ares & Hermes”), sfumando a tratti il labile confine tra il cabaret decadente del Marc Almond di “Mother fist”, lo Scott Walker degli anni Sessanta (“Hidden Villa, Florence, 1453”), o perfino il Peter Gabriel dell’era Genesis (“I’m the one who loses”), sospeso su atmosfere languide e su una insopprimible mestizia che ne costituisce l’essenza, l’album disegna scenari di dilagante afflizione imperniati su racconti visionari di morte e desolazione, orditi dal punto di vista di un io narrante (forse un demone, al contempo protagonista e aedo).

Priva di variazioni, di un centro, di uno sviluppo, la musica di Sam Rosenthal sfiora il paradosso: cresce restando ferma. E’ immobile, eppure lievita a dismisura lungo le trame strazianti del violoncello (“To touch the milky way”, già contenuta nell’omonimo album del 2018 e qui riproposta in una versione di durata dimezzata, priva della lunga coda strumentale), arroccata nel suo angolo, esangue o pomposa secondo l’estro del momento.

Rigorosamente declinata in tonalità minori sulle ali di un crooning profondo e ipnotico, va in scena una pièce che modula tonalità cangianti di nero e grigio, con il canto che insegue ed asseconda melodie sì opulente, ma cristallizzate ad arte nella loro fissità. La circolarità della voce di DeRosa – avviluppata come edera attorno al canovaccio dell’armonia che la sostiene – conferisce all’insieme una straniante teatralità, sovraccarica e rigonfia di pathos come nei sette minuti di “So tired of history”, con Meierkord a dominare il finale in spettrale solitudine.

What if death is not defeat?, si chiede Rosenthal.

Conosce già la risposta, intrisa di una attualità tanto drammatica quanto universale: humans find it hard to sit idly by/always have to do things/atrocities to pass the time/so as not to confront the anxiety of our ambivalence/so as not to confront the anxiety of uncertainty.

Vorrebbe indicare una diversa via d’uscita, ma può soltanto realizzare l’ennesimo capolavoro ed incidere a chiare lettere l’ultimo epitaffio sull’altare della vita: fragile tender moments with so much nothingness around them.

Tutto qui: niente di meno, niente di più. (Manuel Maverna)