MARCELLO CAPOZZI  "Offshore"
   (2022 )

Gran disco, “Offshore”. Tutto qui.

Impiega un po’ ad insinuarsi tra un pensiero e l’altro, ma - sornione e stratificato - si apre la via grazie ad una scrittura profonda e ad un impianto ambizioso, articolato, sfaccettato.

Pubblicato per I Dischi Del Minollo, è album intenso e rigonfio di idee, di suoni, di melodie, di intuizioni, opera concettualmente complessa da leggersi secondo la partizione che Marcello Capozzi – artista napoletano al secondo lavoro in dieci anni - gli ha dato: tre blocchi di tre canzoni ciascuno, pubblicati a distanza di due mesi l’uno dall’altro, come capitoli di un romanzo, poi ricondotti ad unità. Ogni triade rappresenta un periodo nella vita del personaggio-chiave, ogni stagione segna la transizione del protagonista dal particolare all’universale attraverso un viaggio in varie tappe, tra realismo e simbolismo.

Dall’iniziale condizione di insofferenza fino all’aspirata pacificazione – non necessariamente raggiunta, anzi – Capozzi disegna il tragitto di un’anima travagliata imbrigliata tra le maglie del vivere quotidiano. Spunto di partenza il suo trasferimento a Londra in pianta stabile nel 2015: la fuga, il contatto col nuovo mondo, l’immersione in un contesto differente, la progressiva immedesimazione con quel milieu fino all’assorbimento, necessario ma non scontato.

Inizia in italiano con la caustica apertura di “Modello 730”, per proseguire alternando l’inglese all’idioma nativo (a volte anche nella stessa canzone, come in “Dei miei stivali” o in “London Bridge”) fino alla sostituzione totale con la lingua di adozione che si compie nella pigra ballad à la Cat Stevens di “Mors tua”; dispensa testi intelligenti ed una verve imprevedibile, oscillante tra strutture affini al cantautorato nostrano ed improvvise impennate intrise di un pulsante indie-rock (“Fine mondo (Pianeta Schengen)”, “London Bridge”), ma capace anche di crogiolarsi negli strumentali atmosferici di “Six years later” o di “Once upon a time in the universe”, morbida chiusura su un arpeggio trasognato.

Intrigante e variegato, inafferrabile eppure centrato, “Offshore” regala squarci abbaglianti di una poetica sui generis nell’insinuante soavità di una “Anelli siderali” che ricorda sia i Dorian Gray sia certe produzioni della Ribéss – dal Collettivo Ginsberg a Houdini Righini - con voci fuori campo, filtri, feedback in sottofondo e altri trucchi assortiti; a tratti è perfino magistrale nel deviare gli autoctoni sentori anni Settanta verso un gustoso ibrido ben poco catalogabile, sublimato nei sette minuti a perdifiato della title-track col suo crooning vivido tra Fossati e Basile, sontuosa partitura incombente trattenuta nel limbo di un giro ripetuto ossessivamente fino all’epilogo che la inghiotte.

Progetto finemente (e lungamente) elaborato, incisivo e penetrante, colto e pungente quanto basta a delineare con nitidezza il potenziale di un autore di non trascurabile spessore. (Manuel Maverna)