MAX MANFREDI  "Il grido della fata"
   (2022 )

Il disco "Il grido della fata", titolo azzeccato e poetico quanto basta per spiccare dalla massa/melassa, segna il ritorno sulle scene dopo sette anni di Max Manfredi, il cantautore genovese che De Andrè aveva definito in una intervista degli anni Novanta "il più bravo", e come si sa un giudizio così tranchant è impegnativo specie se pronunciato dal guru del cantautorato.

Di Faber, Max segue in effetti le orme in più di un passaggio di questo disco, una sorta di omaggio all'inarrivabile maestro, ma qui siamo lontani dal rigoroso immergersi nella Liguria canora di "Crêuza de mä", qui Max si ritaglia una identità coerente e istintivamente riconoscibile per quel suo cantar sornione, con un retrogusto alla Lindo Ferretti ma molto meno nervoso, aiutato anche dalla simpatica "erre" che un tempo si diceva fa tanto aristocratico e qui contribuisce all'amalgama dell'insieme.

L'elettr(rrr)onica nella costruzione dei suoni gioca un ruolo preponderante, ma l'effetto non è alla Matrix (pessimo il quarto film della serie, magari l'avesse girato Christopher Nolan!), per fortuna il suono è ricco senza strafare, pastoso, e tiene in giusto rilievo la voce.

Un lavoro di lima e gestazione lungo contraddistingue il nuovo canzoniere di Manfredi che ci accompagna in un territorio fatto di caruggi e paesaggi e profumi, misteriosamente domestico come Vittorio Sermonti ha definito una volta la vera poesia, e giustamente l'artista dice che "tra queste canzoni si respira un'aria di buon vicinato, come tra i panni stesi dai dirimpettai".

Un disco dalle tante facce e dai tanti strati tenuti insieme da voce e note in armonia, senza mai indurre chi ascolta allo sbadiglio, talvolta rivolto all'indignazione e alla critica sociale come nella prima indovinata canzone "Scimmia grigia", per mettere alla berlina i tic e i vizi della contemporanea quotidianità.

Una volta un poeta ha detto che occorre fare la poesia onesta. Questa di Max è la musica onesta che ci serve e ci manca, ce ne fossero... e invece rischia di essere una buona eccezione a una piatta regola che prima o poi scoppierà come una bolla, ma intanto ci ammorba le orecchie con vecchie glorie trite e ritrite e voci bubble gum costruite a tavolino e fatte brillare come mine nello spazio di un secondo televisivo.

Qui siamo decisamente su un altro pianeta, e chissene se è quello del piccolo principe. L'importante è che si possa immaginare che una pecora è dentro una scatola. "La laurea in tedesco l'ho presa - dice l'artista - ma non l'ho nemmeno ritirata dalla segreteria. Invece sono andato al Club Tenco e lì ho scommesso sul mio futuro, nel senso che ho deciso di non fare altro se non le cose cui tenevo, e che so di poter fare bene, indipendentemente dai buoni esempi e dai molti cattivi. Se io poi abbia vinto, non lo so, diciamo che finora c'è stato un bel pareggio”.

Un buon esempio di understatement, la giusta distanza dalle vicende della vita senza snobismo ma nella convinzione che occorre essere autentici e sinceri per non farsi travolgere e per abbracciarle come la vita richiede. Specie oggi per uscire dalla gabbia della realtà e rifugiarsi come invita a fare questo manipolo di 12 apostoli-canzoni tra pollerie, tisane e pianure, essenze che solo a pronunciarle si produce un suono nel mondo, come asfodeli ed elicrisi, e cavigliere (sbaglierò ma è la seconda volta che la si usa questa parola dai tempi di Battiato in "Voglio vederti danzare"), un teatro domestico color pastello e acquerellato nei punti giusti, fatto di nebbie, odore di polli cotti allo spiedo che serpeggiano nei vicoli della testa, un canto di fragile quiete, dal sapore invernale, per esorcizzare l'inverno che abbiamo dentro da troppo tempo e far scaturire, se si può, un sorriso grazie al dono e alla magia della musica. E scusate se è poco. Voto 7 e mezzo. (Lorenzo Morandotti)