TRONDHEIM JAZZ ORCHESTRA & JOHAN LINDVALL "Om du reser mycket"
(2021 )
Dalla Norvegia, la Trondheim Jazz Orchestra ci sorprende con un nuovo lavoro colorato, assieme al pianista svedese Johan Lindvall. Quello che la numerosa formazione crea nell'album “Om du reser mycket” (uscito per MNJ Records) è un preciso ecosistema, tanto indefinibile quanto riconoscibile. E nell'accompagnare il pianista e compositore, creano una sintonia davvero difficile da rendere a parole.
Intanto c'è da dire che Lindvall si prende i suoi tempi, ai tasti bianchi e neri. Le sue scelte non sfociano mai in virtuosismi da capogiro. Semmai, Johan sviscera le possibilità espressive di certi pattern ritmici e, del prolungamento di singole note, come avviene in “Två”. O come in “Varit här förut”, dove poche febbrili note di pianoforte giocano assieme al violino, mentre le percussioni, assieme agli sfiati dei fiati, contribuiscono a creare appunto quell'ecosistema sopra citato, una sorta di giungla disordinata ma non caotica, docile.
La giungla diventerà caotica invece in “Att säga nej”. Inizia con una certa leggerezza natalizia, ma incantata, ipnotizzata in una sequenza di accordi che non si risolve. Anzi, poi cambia diventando un salto nel vuoto, con vocalizzi sopra colpi di vibrazioni bassissime. Poi ritorna quella leggerezza impalpabile, colorata dal clarinetto. Ma la leggerezza si devia ben presto in una rumorosa festosità. Cioè diventa più pesante, ma lo sfondo resta allegro. Una simpatica contraddizione.
L'atmosfera magica e innevata si percepisce anche in “Dröm”, che a intuito significherà qualcosa come “dream”. Ma Lindvall spicca all'inizio, nella “Introduktion”, facendo appoggi di piano lenti e mesti. Gli accordi che esegue il pianoforte sono ricercate sospensioni. Deve piacergli la sospensione nel silenzio, infatti in “Fall”, oltre che le note, si sentono pure i martelletti del pianoforte.
Però la Trondheim Jazz Orchestra non resta in disparte. “Regn” e “Inte nu” sono due brani praticamente indecifrabili, ma caratterizzati dalla ricchezza timbrica, e il secondo da una certa forza ritmica (la batteria avvia il brano da sola). Il brano di chiusura si intitola “Slut”, e spero che non sia inglese. Qui, i fiati ricordano quei gorgheggi ossessivi dell'ultimo disco di Bowie, "Blackstar". L'elettronica crea imprevisti qua e là, mentre il pianoforte sorregge tutto con seriosità.
Il pezzo che resta decisamente più impresso è “Röd”, un'accattivante ritmica secca, disturbata da un violino che fa i capricci. Poi si apre ad un panorama più morbido, creato dal vibrafono, e da chitarre acustiche sferraglianti. O da percussioni sferraglianti. Boh, comunque c'è molto sferragliamento, in questa giungla.
Se questa è la nuova direzione internazionale di quello che viene considerato “jazz”, il jazz è vivo più che mai! (Gilberto Ongaro)