THE BREAKBEAST  "Monkey riding God"
   (2021 )

The Breakbeast è il nome del progetto avviato all’alba del 2020 da Sergio Pomante (Sudoku Killer, String Theory ed ex Ulan Bator) al sax, Alessandro Vagnoni (Bologna Violenta, Ronin, Drovag) alla batteria e Mario Di Battista (La Mala Sementa, Ulan Bator) al basso e alla voce.

La formazione, che potrebbe tranquillamente essere considerata un supergruppo, ha da poco debuttato con “Monkey Riding God”, un concept album di quasi quaranta minuti incentrato su una visione apocalittica e messianica e sulla sospensione fra la morte di questo mondo e la nascita di un altro, completamente nuovo, liberato dal senso comune, segnato da un nuovo rapporto con la natura e dall’assenza del capitalismo.

Musicalmente, la quantità di influenze è impressionante, ma lo è di più il modo in cui queste riescono a fondersi, a rimanere riconoscibili, a creare una proposta che conserva omogeneità durante il suo percorso: c’è il funk, innanzitutto, mescolato all’hip hop astratto e a un jazz d’avanguardia che abbraccia ritmiche afrobeat e che accoglie elementi dall’industrial, dal post- e dall’hardcore punk.

Il viaggio sulla giostra dei Breakbeast si apre con “The Trickster Who Invented Xenofunk”, primo gioiello in termini di composizione, e si chiude colori con una scorbutica “Nomadic War Machine”. L’effetto, almeno inizialmente, può essere straniante, d’altronde il concept è chiaro: una danza felice mentre si viene violentemente traghettati verso una realtà nuova, perfettamente incarnata dall’acido di “Cop Porn” e dalla follia collettiva in cassa dritta di “Ending Anthroposcene From Monkey’s Rave Party”.

Il resto è dato dall’hip hop pesante, industrializzato e pure venato di jazz di “Deepengo”, con la partecipazione di Egreen, da “Phunk Is Not Dead”, il cui titolo è quanto di più eloquente i nostri potessero inventarsi, nonché autentica dichiarazione d’intenti, e da “Thousand Elephants Are Shitting on Wall Street”, con un altro nome particolarmente evocativo.

Come per ogni giostra, il giro prima o poi finisce. Ma da “Monkey Riding God” non vorrete più scendere. (Piergiuseppe Lippolis)