ULYSSE  "Ulysse"
   (2021 )

Il cuore indie rock batte ancora forte a Pescara. Ed è una bella scoperta questa degli Ulysse, una band che nasce come progetto solista di Mauro Spada, ma è una sorta di super gruppo della scena alternativa pescarese, una scena che in passato ha avuto come punta di diamante i Santo Niente da cui provengono ben due esponenti della band: il bassista Raffaello Zappalorto e il batterista Gino Russo. Ma tutti i componenti degli Ulysse sono veterani dell’indie rock italiano. Folgorati dagli ascolti dei due post - sia punk che rock- intraprendono questa operazione, più mossi dalla passione, che da un oculato calcolo commerciale. Il loro rock è come un fuoco che in un momento si infiamma e poi torna ad ardere sotto la cenere, una continua alternanza di momenti di distacco e sottrazione emotiva e altri di rabbia e intensa partecipazione.

“Saremo pietre lucide / avremo vite al margine” recita la cinica e disillusa “Vetro”, il primo brano del album: con un incedere alla Interpol, trainato da un basso distorto, ci cala in un clima di rassegnata desolazioni in cui l’unico imperativo è resistere. In “L’ascesa dei dementi” cresce il tasso di rabbia tra inni alla sopravvivenza (“Cerchi una dignità di ghiaccio uscendo da pozzanghere di merda”) e constatazioni amare (“che i demoni incendiano che gli angeli affondano”). “HWHAP” e “Patroclo” sono due brani strumentali che rivelano tutto l’amore degli Ulysse per i suoni e le architetture musicali di band come Mogwai, Labradford e Slint, ma anche per le melodie alla “Warszawa” del Bowie di “Low” e per le voci radio filtrate che fanno tanto Cape Canaveral. “Nel torbido scorrere” è tregua, calma rassegnata, mentre una voce “Garbiana” sorvola meditabonda sulla struggente quotidianità “dell’inferno dei vivi”.

In “Fino al sangue” Mauro Spada è un novello Ian Curtis che, tra spleen e autoflagellazione, lancia un grido di disperato, un appello dal sottosuolo dove “i momenti peggiori sono quelli più veri” perché “un alone di fuoco non emana calore”. L’andamento sospeso dello strumentale “L’alba di Sapporo” filtra il post rock con le voci giapponesi per portarci fino a “Suntuosa solitudine” una rarefatta elegia del distacco che con intenzione “Ferrettiana” chiude l’album con le parole “e resto solo alla deriva”, che da sole potrebbero essere il senso di tutta l’opera.

Un bel disco, molto ispirato, un po’ fuori tempo massimo, ma come la ragione sociale Ulysse suggerisce, alla fine arriva per raccontare il viaggio, che è stato duro, ricco di insidie che ci hanno cambiati, resi migliori più forti di prima. (Lorenzo Montefreddo)