JOSEPH PARSONS "At mercy’s edge"
(2021 )
Dischi come questo rappresentano una liberazione, un alleggerimento, una rilassata goduria da mandar giù come una granita a Ferragosto in spiaggia.
Ti permettono di inghiottire quaranta minuti di musica semplice, lineare, un prodigio di essenzialità: sono una benedizione che si scrolla di dosso qualsiasi orpello inservibile, travestimento, metasignificato, trucco bifronte. Brani da 3-4 minuti squadrati e imperiosi, tagliati dritti e netti con l’accetta da boscaiolo, una Americana cesellata da mani esperte tra Creedence, Lucinda Williams, Steve Earle, Tracy Byrd, Lynyrd Skynyrd e Vanessa Peters, cantata con quel bel timbro pieno e rotondo che fa tanto stars-and-stripes, Route 66, e via così.
Joseph Parsons è oggi un signore ben oltre la cinquantina, originario di Philadelphia e dal 2007 stabilmente trasferitosi nel nord della Germania, da trentacinque anni sulle scene e con alle spalle altrettanti album, pubblicati a suo nome o con la partnership dell’amico musicista Todd Thibaud, o ancora con le band nelle cui fila ha militato per lungo tempo, dagli US Rails agli Hardpan.
Instancabile alfiere di una musica immarcescibile, rilascia su etichetta Meer Music/Blue Rose Records “At mercy’s edge”, nulla di più e nulla di meno rispetto ai suoi standard, ma proprio per questo una boccata di ossigeno quando ce n’è gran bisogno: facile e diretto, intenso, tradizionale fino al midollo, fedele alla linea anche quando non c’è, con i suoi 4/4 spesso in maggiore, qualche assolo breve e conciso e quel passo che fa tanto rodeo, cappelli da cowboy, leather boots, birra gelata e polvere on the road. Che poi country&western non è - Joseph non me ne voglia -, ma il confine talora è labile, ed è un piacere oltrepassarlo di tanto in tanto.
Rari gli episodi che si discostano dal canone, e va benissimo, intendiamoci: l’incedere incupito di “Last one in” in zona Tom Russell; il lentaccio languido di “One more”, con seconda voce di Emily Ana Zeitlyn a regalare quel tocco di inverno e legna scoppiettante nelle Rocky Mountains, dove non sono mai stato, ma che voglio immaginare così; il ballabile da mattonella à la Chris Isaak di “Living with the top down” – questa in minore, eccome - che ti mette voglia, complice un memorabile solo di chitarra ed un’atmosfera suadente, di abbracciare qualcuno anche se non si può.
Il resto è una deliziosa comfort zone che offre ai suoi adepti l’opener springsteeniano di “Greed on fire”, il battito dispettoso à la Johnny Winter di “Madness”, l’andatura caracollante di una “Mule train” che piacerebbe parecchio a Mark Knopfler, giù fino alla chiusura affidata alla toccante ''Mercy's Edge'', ballata affranta costruita su una storia di redenzione e perdono che stringe il cuore mentre ti accompagna all’uscita.
Tutto come previsto, tutto come da copione, tutto da riascoltare in repeat lungo la A14 mentre raggiungi Riccione. O percorrendo la Route 66, come preferite. So long, Joseph, al prossimo viaggio. (Manuel Maverna)