LASTANZADIGRETA "Macchine inutili"
(2021 )
Inscindibile dalla particolarità che ne segna in modo indelebile lo stile peculiare, quella di Lastanzadigreta è musica costruita attorno ad una strumentazione non convenzionale che accosta ai tradizionali ferri del mestiere una pletora di oggetti di ogni tipo, ciascuno impiegato per produrre suoni forieri di una curiosa amalgama dal sapore retrò.
Nonostante l’aura scarna e minimalista, nella scrittura del quintetto torinese – già messosi in luce nel 2016 con “Creature selvagge”, Targa Tenco 2017 come migliore opera prima – nidifica in realtà un piccolo mondo moderno sovraccarico di parole, concetti, filosofia e politica, compendio di amara ironia e humour sardonico.
In “Macchine inutili”, pubblicato per Sciopero Records, si sorride a denti strettissimi, in empatia con le vicende di personaggi più tratteggiati che descritti, spesso lasciati languire in un grigiore che equivale a desolata nudità.
Testi elaborati ed arguti sfoggiano un italiano pregevole al servizio di piccata denuncia e compito risentimento (“Attenzione attenzione”), dipingono oasi di squallore nascoste dal paravento di una comicità surreale (“Canzone d’amore e di contributi”), trovano spunti che flirtano con un godibile pop da camera (“Tarzan (quello vero)”, a suo modo irresistibile), gigioneggiano ai confini del nonsense (“Spid”, “Grammatica della fantasia”) senza mai smarrire l’invisibile fil-rouge che li unisce.
Echi di Max Gazzè, Battiato, Laurex Pallas, Stefano Rosso punteggiano con delicatezza quarantacinque minuti ben più sfaccettati e complessi di quanto l’apparenza suggerisca, mentre a sostegno di queste favole storte il canto si mantiene compassato, quasi timido e defilato nel resoconto cronachistico di minuzie quotidiane affogate nella mesta, grottesca lotta per la sopravvivenza (“Fiori”, bella aria melò à la Baustelle, così come l’avvolgente “Pesce comune”).
Le macchine inutili del titolo – richiamate dalla title-track, raffinato numero da metacabaret che sarebbe piaciuto a Giorgio Gaber - potrebbero simboleggiare indifferentemente gli stessi esseri umani - persi nel loro incessante girovagare in un mondo arido - o i mezzi meccanici e gli arnesi da lavoro attraverso i quali, nei meandri di attività disumanizzanti, si guadagnano da vivere. Quegli stessi arnesi che Lastanzadigreta sa riciclare mutandone il valore d’uso in una forma d’arte insolita: teatrale sì, ma garbata, variegata e fantasiosa. (Manuel Maverna)