LINDA COLLINS "Tied"
(2021 )
Ci sono almeno tre cose belle che riguardano questo disco.
La prima è che la band che ne è titolare non è esattamente una band, bensì (quasi) una comune. Ben più di un collettivo, altrochè. C’è un nucleo di base, autore di gran parte dei brani e formato da quattro elementi: Alberto Garbero, Massimiliano Esposito, Vincenzo Morreale e Pietro Merlo, gente non di primo pelo.
Intorno – ed anzi: dentro - ad ognuna delle dieci tracce che compongono “Tied”, esordio per Urtovox Records, gravitano tutta una serie di nomi che – minori ahimè per sola notorietà, non certo per levatura o per merito – popolano un ben celato sottobosco di casa nostra. Michele Sarda (Neverwhere, Caplan), Federico Babbo (Jackeyed), Fabio Padovan (Savantpunk, Olla), Fabio Arnosti (Arnoux), la vocalist Karin Nygren, il trombettista Ramon Moro. Ciascuno col suo apporto, siano la voce, i testi, l’interpretazione in generale, uno strumento, un arrangiamento.
La seconda cosa bella è che studiando la genealogia dei Linda Collins – quasi più complessa di quella degli Squirrel Bait – si ha il privilegio di conoscere meglio le svariate entità di partenza dalle quali nascono, immergendosi – per conoscenza e per piacere - in un flusso ininterrotto di musica dall’afflato apertamente internazionale e scoprendo una nutrita serie di lavori ricchi di spunti ed interesse: per approcciare “Tied” ho ascoltato altri sei album, ed erano uno meglio dell’altro.
La terza cosa è questo disco, frutto e figlio di tutto ciò. Rispetto alle molte esperienze da cui trae linfa e delle quali si nutre, il progetto riesce a ritagliarsi una propria dimensione, calandosi in un milieu che è altro rispetto alla sintesi dei singoli elementi. Ognuno reca in dote qualcosa, l’insieme è diverso dalla somma – o dall’intreccio – delle parti. Negli act di origine – principalmente Neverwhere, Jackeyed, Caplan, Olla - a prevalere è un alt-folk di taglio talvolta piuttosto classico, elegante, discretamente ombroso: nei Linda Collins il mood vira invece verso un inatteso ibrido di folktronica, post-rock di seconda generazione, echi trip-hop.
Benchè accogliente, la stanza rimane piuttosto buia, l’atmosfera caliginosa, opprimente a tratti. Il clima generale è fosco, dimesso, desolato. Il canto si conserva intenso ed afflitto, paradossalmente prescindendo da chi ne sia il veicolo: la morbida “Sometimes” in apertura è una magia notturna che la tromba di Ramon Moro impreziosisce, il passo di “Kids #2” è un gelido soffio che si perde ai tempi dei Cure di “Seventeen seconds”, una landa nebbiosa dove regnano sovrane anche la svenevole melanconia bucolica di “First step #1”, gli echi Portishead di “Blindfolded”, le diafane armonie dei Carta (“External”), la nevrosi robotica di “Overrated #2”, la tenue introversione dei Blessed Child Opera (“Kids #1”).
Vertice assoluto di un album profondo, elaborato, sapientemente edificato su strati e strati di idee sono i cinque struggenti minuti di “For Linda”, strumentale di impalpabile bellezza che Ramon Moro prende nuovamente per mano come una madre col suo piccolo: ogni nota trascinata, sgranata, distillata equivale ad una carezza, un gesto d’amore in questo florilegio di arte gentile e di compassata classe.
Se poi nel suo fluire lieve e circolare “Tied” rilassi o inquieti, è questione di sensibilità personale: il confine è sottile, ma al cospetto di cotanta grazia è davvero un argomento di scarsa importanza. (Manuel Maverna)