CONVERTIBLE "Holst gate II"
(2020 )
Il mondo di Hans Platzgumer è questo, prendere o lasciare.
Cinquantunenne originario di Innsbruck, è scrittore di fama internazionale, giramondo, compositore, studente di chitarra al Conservatorio di Innsbruck, diplomato al Conservatorio di Vienna, musicista - con predilezione per l’elettronica - in una svariata serie di progetti, tra i quali non si possono scordare gli esordi a fianco di Frank Puempel nel duo H.P. Zinker, che non poco riscontro ottenne oltreoceano grazie ad una folle mistura di noise à la Helmet e schegge di post-rock louisvilliano condensati in ben cinque album nella prima metà dei 90’s.
Più avanti negli anni, un ampio spazio spetta invece sia ai lavori da solista, sia a quelli realizzati con i Convertible, attuale band di elezione giunta al sesto full-length per la viennese Noise Appeal Records.
Come se la multiforme interdisciplinarietà del Nostro non fosse sufficiente, un paio d’anni orsono nel backstage di quello che poteva ragionevolmente essere il suo ultimo concerto (peraltro nella natia Innsbruck) prima di dedicarsi anima e corpo alla letteratura, Hans ha una visione che rimette tutto in gioco: dà così vita all’alter-ego di Colin Holst, immaginario musicista norvegese che dal suo eremitico rifugio di un paesello di pescatori canta le vicende reali di un mondo irreale, o forse viceversa.
Il prodigio accadeva più o meno agli inizi del 2018: il risultato fu “Holst gate”, album inafferrabile tra ascendenze kraut e pop d’antan, mirabile compendio di stravolta alienazione concepito insieme al basso dell’americano Chris Laine, ai testi della britannica Hannah MacKenna e naturalmente alla musica dello stesso Hans, austriaco che componeva pensando come un norvegese inesistente.
Due anni dopo. Ci risiamo.
Supportati per l’occasione dal batterista Michael Schneider, dal chitarrista Mathias Hammerle e dai fiati di Andreas Huemer, i Convertible di Hans – anzi: Colin – ritornano con il seguito abbacchiato e pessimista di quel lavoro: nasce “Holst gate II – the world according to Colin Holst”, affogato in una squisita autoreferenzialità – ha senso l’autoreferenzialità per un alter ego? Ma cosa ha senso in Platzgumer? – che mostra forme e colori filtrati attraverso il prisma deformante di una scrittura imbevuta di molta passata gloria.
Fra la la cadenza desolata che fa di “Broken dials” una perla di contrizione, la ballata agée di “Not a cloud” ed il gospel bislacco di “The Colin Holst song”, deviata nei due minuti di un cul-de-sac che non dispiacerebbe a David Byrne, i Convertible rimangono un gioiello di ben riposta segretezza, magistralmente nascosto e custodito al riparo di una musica che parla tante lingue quante sono le idee ondivaghe del suo faro, vate, padrone, fate voi.
Carezzevole e accomodante nella forma, sinuoso ed indefinibile nel movimento, profondo e amaro nei testi, pomposo ed eccessivo in quello che potrebbe sembrare citazionismo spinto ed è probailmente solo l’ennesimo trucco di scena di una mente vulcanica persa ad inseguire la prossima svolta, l’album assembla in ordine sparso una interminabile serie di golosità e suggestioni assortite. Come fossero dei Flaming Lips privati della componente allucinata, frullano Beatles (“Spinning”) e Billy Joel, Van Morrison (“Shadow-scene revisited”) e Greenwich Village, Fleetwood Mac e Steve Winwood (“Never know”), Kinks e Canterbury (“Shangri-La”), Dylan (“Everything and everything”) e Al Stewart, Elton John (“Thought we’d had forever”) e il Bowie di “Aladdin sane” in quarantacinque minuti di anacronistica decadenza.
Un percorso ubriacante e fascinoso come un trompe-l-oeil nel quale perdersi con il più dolce abbandono, fino alla prossima intuizione del suo folle ispiratore. (Manuel Maverna)