JANE'S ADDICTION "Nothing’s shocking"
(1988 )
Mentre i Guns and Roses di “Appetite for destruction” smerciavano in milioni di copie un’opera che fondamentalmente non aggiungeva nulla al corso del rock, ma che anzi sembrava imbalsamarlo in una patina di innocuo manierismo, da quello stesso buco infernale che è Los Angeles debuttava una band dopo la quale niente sarebbe stato più lo stesso: i Jane’s Addiction. Il quartetto capitanato dall’androgino Perry Farrell forgiò una miscela di rock innovativa ed eccitante, capace di fondere in un sincretismo strabiliante le più disparate influenze, dal metal alla psichedelia, dal funk alla new wave, ma in grado di far emergere una cifra stilistica autonoma e freschissima, che avrebbe marchiato a fondo gli anni '90. Dopo l’eccellente, omonimo debutto per la XXX records, nel 1988 toccò a “Nothing’s shocking” sancire la pericolosità e la bellezza del “vizio di Jane”. “Up the beach” fa partire al meglio le danze. Un cupo giro di basso disegna orizzonti quasi inglesi ma poi il chitarrista Dave Navarro, con dei sontuosi ghirigori psichedelici, ricorda che siamo in California. “Ocean size” e “Had a dad” trascinano nel ventre di Jane, con spietate soluzioni p-funk solcate da smaglianti assoli di Navarro e dall’allucinato cantato di Perry Farrell, come sempre protagonista. “Ted, just admit it” è invece un autentico manifesto di quello che negli anni '90 sarà chiamato crossover: 7 minuti di metal modernista e tribale sorretti da una sezione ritmica potente e spiazzante, con Navarro che alterna spigolose sciabolate a spiritati arabeschi, mentre Perry Farrell ci trasporta nella Los Angeles più viziosa e torbida al grido di “Sex is violent!”. “Standing in the shower thinking” riporta su lidi funky-thrash sotto l’impulso del poliedrico drummer Stephen Perkins, laddove con “Summertime rolls” si inaugura quella svolta sognante e psichedelica che costituirà l’asse portante del successivo album “Ritual de lo habitual”. Eric Avery forgia degli ipnotici giri di basso di matrice albionica, Navarro si muove tra suoni di chitarra color corallo che filtrano l’impeto di Jimi Hendrix attraverso la sensibilità dei Cure e Farrell gioca con la sua voce acuta e dolcissima in un fitto intreccio di rimandi armonici. In altre parole: i Joy Division si liberano dell’angoscia esistenziale di Manchester e si mettono a fare surf sulla spiaggia di Malibu. “Mountain song” riporta subito alta la tensione con un’asciutta cavalcata in grado di eludere i cliché metal del tempo, mentre “Jane Says”, il loro inno già presente nel debutto, viene riproposto in una versione leggermente barocca, senza compromettere melodie e pathos degni del Lou Reed di “Berlin”. Dopo i divertissement di stampo funky-jazz “Idiots rule” e “Thank you boys”, il sipario sull’album cala con le gotiche atmosfere di “Pigs in zen”, in cui è Navarro a farla da padrone, tra riff al curaro e assoli zeppeliniani. In definitiva un album capitale, qualitativamente inferiore al successivo e più sfaccettato “Ritual de lo habitual”, ma probabilmente assai più influente su pletore di grungers, alternative rockers e nu metallari nei successivi 15 anni. (Junio Murgia)