SOFT PEOPLE "Absolute boys"
(2020 )
E’ una strana creatura di accattivante morbidezza quella che sinuosamente si agita e freme in “Absolute boys” - secondo album per Sandwich Kingdom dopo il debutto nel 2017 con “American men” (2017) - dei Soft People, duo californiano formato da Caleb Nichols e John Metz.
Pubblicato in vinile ed in formato digitale, introdotto dal medesimo artwork di copertina realizzato da Noah Kwid per il singolo “New moon” non più tardi di tre mesi fa, l’album presenta quattro brani già editi come singoli e sei novità che delineano il percorso di un lavoro raffinato, ben rifinito, intriso di una delicata soavità.
Dieci tracce eteree quanto basta a riesumare a tratti l’immarcescibile dream-pop dei nineties, ma rielaborato in salsa Beach House: un riuscito connubio di contemporaneità sposata ad una musica antica e suadente. A rendere ancor più intrigante l’operazione sicuramente i suoni, pieni e rotondi, sì levigati ma impreziositi dal predominio mai invadente delle tastiere, arrangiamenti calibrati e smussati in un milieu che ricorda a volte certi Kings Of Leon, mentre ammicca altrove a reminiscenze tardo-wave.
In apertura, ai cinque minuti e mezzo dell’opener “New moon”, appoggiata ad un arpeggio squillante e ad una dilatazione dilagante dei synth, manca forse solo il baritono di Matt Berninger per sembrare una outtake di “High Violet” dei National; da lì in avanti si fa largo invece un pop sui generis non necessariamente immediato, con la pulsazione incalzante del basso a disegnare atmosfere prossime ai Placebo o agli Editors (“Shot through”), talvolta giungendo a lambire suggestioni à la White Rabbit nella bossanova gentile di “Ramon”, trionfo di inusitato tropicalismo glam.
Inafferrabile e ondivago, concede e sottrae di continuo punti di riferimento, giocando con Pulp e Roxy Music mentre abusa di un crooning cavernoso e furbetto, flessuoso e coinvolgente nella insistita ricerca di una profondità perfino sensuale.
Lo stacco di “Louis”, valzer decadente affine ad uno sketch da tabarin in zona Marc Almond periodo Willing Sinners, è solo una cesura estemporanea, preludio al battito di “Alex”, fiera di un chorus che mai lievita crogiolandosi nel suo stesso abbandono, o alla velocizzazione di una “I saw the moon!” sulla quale ben volentieri ci si lascia andare con nostalgico trasporto ad un accenno dell’immortale “Johnny & Mary” di Mr. Robert Palmer.
Il recitativo à la Koop di “22 lunes” apre la via alla preziosa chiusura di “Embering”, aria dimessa e languida adagiata su un crooning à la Richard Hawley con corollario di chitarre gentili a marcare i contorni di un disco elegante e vitale. (Manuel Maverna)