AUTOSTOPPISTI DEL MAGICO SENTIERO "Sovrapposizione di antropologia e zootecnia"
(2020 )
Che genere fanno i friulani Autostoppisti del Magico Sentiero? Bella domanda! E, soprattutto, come può essere definito “Sovrapposizione di antropologia e zootecnia”: un disco? Una pièce teatral-musicale? Un eloquio multimediale? Davvero, le risposte sono potenzialmente così tante che ognuno ricaverà dalla disamina di un progetto cosi originale e suggestivo, contemplato dalla fervida mente del chitarrista dei Rive No Tocje Fabrizio Citossi e coadiuvato da una vetrina di scintillanti musicisti come Giancarlo Schiaffini, Giovanni Maier e Martin O’Loughlin, rispettivamente al trombone, contrabbasso e didgeridoo. Annoverando anche la presenza al piano di Federico Sbaiz e le voci di Annamaria Conti e Franco Polentarutti, s’intuisce come la formazione degli Autostoppisti sia plasmabile nel numero e nella creatività. Un concept-album, se vogliamo, ambizioso, e che non si propone con la spocchia dell’erudizione, ma mira concretamente al messaggio filo-intellettivo che c’è inscritto nel Dna dell’uomo, ossia quello dell’istinto di solcare sugli assi energetici del pianeta; il che non rappresenta cosa di poco conto, se immaginiamo il momento storico che si sta vivendo. Ed ecco che lo spoken-word recitativo dello scrittore/attore Angelo Floramo che parte da “Mongolian river” suggerisce mantriche suggestioni di viaggio, tra le vie dei canti che solcano itinerari cognitivi e sensoriali, figlie di boschi depredati, ricordi remoti di certi nomadismi spariti e frotte d’invasioni. Se il combo friulano si propone di toccare più coscienze possibili con i 5 colpi in canna dell’album, l’obiettivo è raggiunto, poiché se “Stanzialità intesa come bene di consumo” non dovesse ancora centrare la meta per la surrealità narrativa, ecco che l’oriental-blues di “La città è un ovile sovrapposto ad un giardino” convincerà pienamente, complice la velata invettiva contro l’omogeneizzazione di popolo da parte di uno Stato-pastore che controlla un gregge supino ma inquieto, nel quale nomadi ed apolidi sono, al contempo, vantaggio e pericolo di ribellione. Il tutto, sempre eseguito con contrappunti sonori intrecciati con intenzionalità irregolare, atipica, disinnescati per estraniarsi dal dozzinale e puntare l’attenzione sugli assoli attoriali di Floramo, i quali donano strali emotivi con testualità recitativa sontuosamente filosofica. Infine, il drammatico tappeto tastieristico, all’entrata di “Paleoworld”, si miscela con un vociare black in sottofondo, saldato con oniricità fluttuante che, magari, non risponderà del tutto alla domanda iniziale di quest’analisi ma, senz’altro, farà riconoscere (a chiunque lo ascolterà) che “Sovrapposizione di antropologia e zootecnia” s’approccia all’orecchio con bisbigliate innovative ed estrose, nel cui ipnotico fluire free jazz-blues, si estrae la duplice essenza esistenziale dell’umano “errare”. (Max Casali)