STARAYA DEREVNYA  "Inwards opened the floor"
   (2020 )

Questo disco sta alla musica come “Satantango” sta al cinema. Espressionismo, avanguardia: fate voi.

Domenica mattina. La voce di mia moglie dalla camera da letto interrompe bruscamente lo stato di pura beatitudine nel quale sono immerso come galleggiassi in liquido amniotico.

Mi chiede perplessa cosa sia ciò che proviene dallo stereo in sala.

Rispondo con un velo di incurante, spocchiosa sufficienza mentre torno a lasciarmi dolcemente uccidere da questo indescrivibile prodigio di alterità che è “Inwards opened the floor”, ultimo capitolo nella lunga, oscura parabola del collettivo israeliano – con propaggini londinesi e newyorchesi - Staraya Derevnya. Pubblicato per la piccola etichetta indipendente Raash Records di Gerusalemme, cantato, recitato, declamato, interpretato in un idioma che impasta molto russo ed un imprecisato grammelot, raccoglie sette lunghe composizioni post-niente o post-tutto.

Free-form, eccessi stordenti, qualcosa tra GY!BE e Syd Barrett con vagiti etnici ad echeggiare sinuosi ed infidi fra le maglie larghe di trame frenetiche, agitate, cangianti. Serpenti di suono scossi da droni, contrappunti dissonanti, voci, rumori, field recordings e strumenti raccogliticci strisciano nel perimetro di una musica sfuggente, mutevole come plastilina, anima di un disco mind-blowing, quarantasei minuti di estasi ed incubo che sfumano il sottile confine tra piacere e dolore.

Ispirati dalle poesie del poliedrico artista – letterato, pittore e molto altro - Arthur Molev, vanno in scena esperimenti che giocano su un crescendo emozionale obliquo, suoni non sempre addomesticati avvolti su un canovaccio come in una jam infinita, percussioni minimaliste ed arabeschi intrecciati a scuotere le fondamenta di un guazzabuglio indefinibile, snervante a tratti (“’Chirik’ is heard from the treetops”: neoclassicismo esasperato?), opera inafferrabile che conduce allo stremo delle forze l’ascoltatore, impietrito ad attendere il tracimare della lava.

Musica demoniaca che talora lambisce il frastuono senza che venga impiegata una sola chitarra.

Psicotico, estatico, etereo, ma sempre scosso da piccole turbative (“Flicked the ash in kefir”); astratto, malsano sferragliare di catene di dannati, impro-jazz o chissà cosa, come negli otto minuti e passa dell’opener “On how the thorny orbs cut here”. Altrove, nell’allucinato martirio si fa strada un incedere ossessivo, vestigia sparse di forma-canzone in “Mogweed is done with buckwheat” mutata in creatura-altra, musica apolide, soffocante, guardinga e sospettosa come un fuggitivo.

“Burning bush and apple saucer” è quasi il Tom Barman dei TaxiWars, mentre la title-track è un bailamme di rumori assortiti da suq mediorientale, un’ipnosi ubriacante che lievita su stridori e percussioni minimali fino a pervadere tutto in una saturazione verso il nulla, preludio alla linea di basso – tanto avulsa, tanto perfetta – di “Forgot what was important”, lumicino che rischiara sette minuti e mezzo di vuoto sospinti nello stesso non-luogo in cui Brian Mc Mahan portava le agonizzanti involuzioni dei For Carnation.

Pura sofferenza, pura gioia, la differenza è minima. Lasciate che vi inghiotta. (Manuel Maverna)

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