EAR  "Exousia"
   (2020 )

“Exousia” è un termine greco di difficile traduzione, e di solito si usa in ambito teologico e biblico per riferirsi a quella sorta di autorità/autorevolezza che emerge da Gesù, dalla forza delle sue parole. Per estensione, è “qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé” (PAPA FRANCESCO, E. SCALFARI, Dialogo tra credenti e non credenti, Einaudi). Sempre in greco, “ear” significa primavera. Quasi sicuramente la band romagnola avrà scelto questo nome, per l’omonimia con l’inglese “orecchio”. Gli Ear sono un progetto intimo, e il terzo lavoro “Exousia” è stato concepito in dieci anni di vita. Cristiano Sapori e Andrea Barlotti, il duo fondatore, seguono la filosofia dello slow listening, infatti per ascoltare queste tredici tracce (dodici canzoni di cui una in doppia versione) bisogna concedere loro attenzione. Tutto è della vita personale di chi scrive, per cui molte parole sono criptiche per chi è fuori dal suo mondo interiore. Quando un’anima fa questo, in genere è un dono, una manifestazione di sensibilità. Tutti i brani sono pressoché sostenuti da chitarre acustiche, a volte una diventa elettrica. Qua e là ci sono gentili condimenti elettronici, e difficilmente troviamo ritornelli: le canzoni sono flussi di pensieri, e sebbene spesso ci siano anafore (ripetizioni di parole chiave), raramente si torna indietro. Questa è la struttura musicale (che i musicologi chiamano durchkomponiert) che più si avvicina alla realtà della vita in divenire. “453 gr.” sprofonda in ricordi estivi: “Ricordo noi in gomitoli più piccoli (…) Ricorda noi di ridere di lacrime, agosto galleggia del nome tuo (…) è come il mondo ma senza il cielo, se l'universo non è più un mistero”. In “Eveline” ci sono voci familiari registrate di nascosto, mentre si parla forse di pensare di trasferirsi all’estero: “England di mari di promesse che si stringono di più. England di sfide (…)”. Si affronta la solitudine in “Canzone per chi non ha capito niente”: “Sei fatto per morire senza nessuna nota”. Torna una voce telefonica registrata, che parla di economia, nello strumentale “Massimizzazione del profitto in regime di concorrenza perfetta”. “Amore della mia vita” ha una struttura tripartita, di cui la seconda parte è arrangiata da chitarra acustica e… uccellini. Lui ripete: “Non è coraggio se non hai paura”, e una voce femminile risponde chiedendosi: “Davvero scelgo io?”. Interrogativo senza risposta. “Le nostre fotografie” è la canzone in duplice versione. Compare a metà disco con chitarra acustica e viola, e torna a fine album in elettronica soft, per parole molto intime: “Amore mio, la tua poesia la puoi buttare qua, che ingoio tutto, anche di niente, ma se è di te basterà”. “Navidad” è praticamente strumentale, in crescendo; la voce compare solo per sussurrare “Turirututtu”. L’elemento strumentale è importante per gli Ear, e c’è da perdersi nei nove minuti di “Insulo de la rozoj”, dove la musica fluisce libera dopo poche parole pronunciate a bassa voce e quasi incomprensibili, a parte “Addio pianeti e sabbia ormai”. Altro episodio strumentale particolare è “Heavy colors”: basato su un lento arpeggio di tre note di elettrica, vede comparire una batteria elettronica fuori tempo, l’effetto è voluto. Dopo una ritmica in 7/4, arriva un assolo dal suono molto da Brian Eno. “Resilienza” ha parole assai evocative, cantate sempre sottovoce: “L'estate ha il colore di albicocche troppo mature, stampate in cielo e in terra per sentirsi ridere. Come non si scorda mai quell’estate ancora dentro fuori, rimane dentro fuori, dentro fuori a casa, intorno agli alberi, in giardino immacolato verde, ma invecchiato, dove giocavo ti incontravo (…) rannicchiato ho toccato la tua terra e ho lasciato tutto lì, a bruciare sotto il sole, nel pulviscolo di gesso che imbianca l'acqua e l'aria, e il tempo in mezzo che si è bloccato lì”. Accanto a queste canzoni originali, ci sono due cover: “Bloodstream” degli Stateless e “Bleed” dei Cold. Brani affini al loro stile lento, nel primo ci sono leggeri sprazzi synth, mentre nel secondo, oltre alla voce principale, ci sono echi di voci mescolate che emergono dallo sfondo. Tutto questo è “Exousia”, che per gli autori è stato una sorta di terapia. Per gli ascoltatori può essere un buon esercizio di empatia, perché si sa, come canta De André, “Il dolore degli altri è dolore a metà”. E in ogni caso, il sound generale farà di certo piacere agli amanti del post rock. (Gilberto Ongaro)