INDIANIZER  "Nadir"
   (2020 )

“Sai che non è male? Questa è psichedelia, no?”, mi fa mia moglie mentre passa in sala con un secchio di biancheria in mano. Io continuo a preparare i carciofi al gratin mentre la casa è letteralmente posseduta e scossa dalla frenesia incatalogabile, pulsante e magnetica, di “New millenium labyrinth”, nove minuti e passa che aprono “Nadir”, terzo capitolo nella vicenda artistica dei torinesi Indianizer, quartetto di brillanti agitatori che dal 2013 ben volentieri regalano agli astanti scorci di visionaria follia.

La linea di basso si snoda insinuante come una serpe lungo i meandri di una cadenza allucinata – eppure linda come un pupo appena uscito dal bagnetto - che sembra provenire dai Daft Punk di “Random Access Memories” come dagli Aquaserge di “Laisse ça être”. E’ in larga parte strumentale, fatta eccezione per una serie di vocalizzi seminascosti nel maelstrom di un beat insistito ed incalzante. Come in una Babele 2.0, la lingua parlata somiglia a tratti ad un grammelot, ed in che lingua stiano dicendo cosa è probabilmente secondario.

“Mi piace abbastanza”, ribadisce mia moglie senza più il secchio di biancheria, “ma quanto dura ‘sto pezzo? Mi confonde, puoi abbassare un po’?”. Le dico che supera i nove minuti, mentre passa di lì nostra figlia –tredici anni e già una invidiabile sensibilità in materia - che si limita a chiedermi se sia questo il disco della settimana. “Non è male”, commenta prima di chiudersi in bagno. E due. Dev’essere un mezzo capolavoro, penso.

“Comunque non è proprio psichedelia”, urlo nel frastuono per farmi sentire. “E’ parecchio etno”.

“Anche afro”, conclude la signora, sorprendendomi.

Gran disco, altro che storie. Naviga sciolto in quella terra di mezzo, terra di tutti, terra di nessuno che negli ultimi tempi fa un po’ bella intellighenzia e un po’ evoluzione, ipotesi, open mind, new-wave-of-what.

World-music si chiamava un tempo: impastava suoni e istanze provenienti da altre culture, lontane – o quantomeno diverse - da quella occidentale, ma fuse con essa a produrre qualcosa di nuovo.

Prima di essere world-music, la mezzora abbondante delle sei tracce di “Nadir” è però musica da ballo figlia di molti padri più o meno noti, progenie dalla quale lasciarsi stritolare un minuto alla volta, fino a quel soffocamento che reca con sé una insolita beatitudine. Mentre scorre – suggestione visiva priva di sceneggiatura – il piccolo fragilissimo film di “Sin Cleopatra”, si affacciano ad angoli di finestrelle immaginarie Nu Guinea, Sex Pizzul, Django Django, C’Mon Tigre, perfino i Calibro35, che c’entrano meno, ma c’entrano sempre.

Non so: viene spontaneo dimenarsi, magari goffi come in una gag di cabaret, con quel basso a scavarti un solco nel cervello, le percussioni a ricamare mondi lontanissimi, le voci disciolte in un guazzabuglio ubriacante. Succede nei cinque minuti di “Horoscopic (Saturn returns)”, musica che suggerisce movimento, che invita al disimpegno pur essendo – diciamocelo – cerebrale al punto giusto. Nel senso che non ti impone la sua superiorità intellettuale: te la offre come possibile svago, e tutto il resto che importanza ha?

In “Ka ou fe”, ad esempio, ad occupare la scena è un serraglio di creatività mutante: l’idioma sembra francese ma non lo è (creolo?), il ritmo è un pastiche à la Mano Negra di “Casa Babylon”, i suoni deragliano in un hellzapoppin’ vorticoso che ti stordisce prima della prossima variazione, del prossimo strumento a contrappuntare un tema portante che non sempre necessariamente c’è.

Mentre la nave va, ci manca solo di canticchiare “Caravan Petrol” sull’incipit mediorientale di “Aya puma” - percorsa qua e là da una serie di piccoli refrain che sembrano i Debout Sur Le Zinc, svolazzi raffinati, rifiniture cesellate, tessiture in apparenza delicate ma affilate come lame - e abbiamo dato fondo a tutto il repertorio/campionario di un qualche altrove mistico, illusorio, stralunato.

“Mi piace”, conclude la signora mentre mette mano al suo kit da punto croce. E tre. Dev’essere un mezzo capolavoro, davvero. (Manuel Maverna)