VINICIO CAPOSSELA  "Il ballo di San Vito"
   (1997 )

Erede di Paolo Conte e quindi, per forza di cose, Tom Waits italiano (eccone un altro). Con questa ingombrante etichetta appiccicata sul groppone fin dai suoi esordi, Vinicio Capossela ha dovuto sgomitare parecchio per affermare una sua identità. Se alla fine c’è riuscito è grazie a dischi come questo, che pur mostrando innegabili legami con i due illustri modelli, ha un’ambientazione e un clima del tutto propri, finalmente (diciamolo) caposseliani. Sono storie di balordi che ammazzano la notte in qualche modo nel retro di un furgone con le molle rotte, di Mustafà tarantolati dalla nostalgia appena sentono un vento che “viene d’Affrica” come loro, di feste paesane pacchiane ma spassose, di luoghi con nomi che sembrano una burla (“Contrada Chiavicone”), ma con tanto di cartello del Touring Club a testimoniare che esistono davvero. E’ la provincia italiana, ma quella più viva e acre, reale e contemporanea, ben diversa da quella contiana, un po’ addormentata e immersa nei sogni di un passato non troppo lontano, anche se già mitizzato. Caso mai è un mondo più vicino a quello dei disgraziati d’Oltreoceano immortalato da Tom Waits, ma più familiare, alla buona, dove al posto del velenoso cocktail “whisky + droga” ci sono le quarantatrè Peroni che Mastro Sentimento si scola nell’irresistibile “Al veglione”, vero concentrato d’ironia e comicità, anche se musicalmente poco più di una marcia bandistica. Se vogliamo anche “Il ballo di San Vito” non va molto oltre la tarantella, con tanto di tammorre e sonagli, ma questi episodi casualmente folk non devono trarre in inganno: sono tocchi di colore, innesti che vanno ad arricchire ma non a modificare il robusto tronco jazz-blues, con rami in direzione dei ritmi latini, da cui ha origine la musica di Capossela. E qui, più che nei testi, si sente la parentela con l’Avvocato di Asti: basta sentire la splendida, malinconica “Morna”, che prende il titolo dalla tipica musica di Capo Verde, ma ricorda piuttosto certi lenti tanghi e milonghe. Altri preziosi momenti di dolcezza: “Le case”, quadretto surreale i cui colori notturni sono magistralmente dipinti da un duetto jazz tra pianoforte e tromba, e “Pioggia di Novembre”, con un giro impressionistico di note di pianoforte. Un Capossela raffinato, che non sembra neanche parente di quello dei quadri paesani stile “Al veglione”, ma si tratta di un autore poliedrico, di cui resta ancora da scoprire il lato più “waitsiano”. Ecco allora “Il corvo torvo”, blues d’altri tempi, della serie “non sparate sul pianista”, “La notte se ne è andata”, blues acido e incazzato, chitarra senza fronzoli stile “Hang on St. Christopher“, guarda caso proprio dello stesso Marc Ribot, che suona in tutto il disco. Anche “L’accolita dei rancorosi” con il suo ritmo dondolante e spezzato, da pendolo guasto, e il sinistro sussurro della voce “incazzosa” di Vinicio, appartiene al mondo ideale delle canzoni “sbilenche” di Tom Waits. E così, citando la voce, sono arrivato al punto dolente, quello che rovina almeno in parte la fantasia, l’ironia e la musicalità di questo nostro autore, purtroppo anche cantante. Quando va bene, sui toni bassi, è afona e impersonale, lontana sia dall’aristocratica raucedine di Paolo Conte che dal diabolico urlo da orco di Tom Waits. Se poi si lancia verso impennate improvvise, viene fuori un mostruoso incrocio tra Topo Gigio e Bruno Lauzi, con prevalenza del primo, e allora puoi cantare i jazz più notturni, i blues più tosti, ma alla fine tutto viene falsato e perde valore. Peccato, perché la musica di Vinicio Capossela non se lo merita. (Luca "Grasshopper" Lapini)