SLOWBURN  "Folketro"
   (2020 )

Il Mare del Nord, visto dalla Danimarca, deve avere un fascino particolare, per chi non l’ha mai visto, e la musica degli Slowburn stimola la curiosità di scoprirlo. Il quartetto danese, assieme a molti ospiti, fa uscire per Momeatdad Records il proprio quarto album, “Folketro”, ispirandosi ai culti pagani, al folklore locale e, per l’appunto, al loro mare di sponda occidentale. La loro musica incrocia un approccio improvvisato di stampo jazz, con un post-rock ambientale di difficile etichettatura. “Bezirk” si basa su un giro di due malinconici accordi di chitarra elettrica, uno minore e l’altro diminuito, attorno al quale la batteria crea disordine ritmico. La titletrack invece è sorretta da minacciosi interventi di tuba, sopra ai quali si costruisce un rock poliritmico. “Skær” ferma il già lento ritmo e distende il proprio materiale sonoro, dato molto dai fiati (clarinetto e sassofono). La mestizia che ne esce fa pensare ai rituali funerei tradizionali. “Diablo” si apre con una chitarra dagli arpeggi placidi e dal suono tremolante e riverberato, poi si sviluppa come un ambient celestiale, a dispetto del titolo. L’album è distribuito in digitale e su vinile, e nel caso del vinile abbiamo terminato il lato A. Passando al B, “Skabninger” ritorna sulla poliritmia, con una sessione ritmica e di fiati sfrenata, mentre il basso suona singole note marziali. “Azur” continua sull’inafferrabilità del groove, o meglio, se ne sente uno marcato da basso e batteria, ma chitarra e fiati corrono forsennati in altre direzioni, cercando di trovarsi con approccio quasi improvvisato, fino a tornare a un obbligato melodico che li mette in linea, ma non assieme a basso a batteria. Da collante fra queste due zone distinte, ci sono gli archi ospiti e un pad di tastiera. Si mescolano così un certo entusiasmo e una certa emotività. “Elementar Ånder” è un commento sommesso che precede i 7 minuti di “I Skyggerne”, summa di questo precipuo stile. Siamo immersi in un’atmosfera nebbiosa e rarefatta, che chiude l’album e determina la cartolina sonora che ci resta impressa nella mente. Una testimonianza di un legame viscerale con il proprio paesaggio. (Gilberto Ongaro)