ASIA GHERGO  "Bambini elettrici"
   (2019 )

“Quanto ho amato perder tempo”, canta Asia Ghergo. Eppure di tempo lei sembra non averne perso affatto. Si è fatta conoscere su YouTube cantando le cover indie dalla sua cameretta con la chitarra e adesso, la giovane fluo è arrivata al suo primo vero album, “Bambini elettrici”. Qui in dieci canzoni, mantiene gli arrangiamenti minimali, con chitarra pulita e pochi suoni aggiuntivi attorno alla batteria elettronica, portandoci nel suo universo intimo. La sua penna è ancora acerba, sembra che in certi momenti i testi si affidino più a certe strategie di marketing, che a un’espressione autentica di sé. Tuttavia, è una caratteristica tipica della generazione Z, cresciuta a tutorial e “segreti per vivere di musica”, con buona pace di Maraglino, e tanto di cappello a chi riesce ad emergere senza troppi compromessi. Ma ciò non toglie, che tra le parole di Asia ci sia la propria vita per davvero, oltre al vestito dell’adolescente sperduta che si cuce con dissimulata sicurezza. E anche dei discreti giochi di parole e piccole visioni d’amore molto tenere (“Al cinema non danno niente, da quando esisti tu, di interessante”). Con “Guardami ballare” apre l’album e dichiara la consapevolezza della propria condizione e la ricerca d’attenzione: “Un giorno crescerò, sono solo un fiore mi serve tempo, guardami ballare”. “Angeli” rivela un precoce spirito materno: “Con le mani ti copro gli occhi, che questo mondo è cattivo, ci vuole morti”. “Stare bene” ribadisce questa fuga dalle cattiverie: “Non troverò pace qua nel mio petto, cento battiti al minuto, che bel concerto (...) le parole ingarbugliate tra le coperte, ora lascio questa camera finalmente”. Qui si trova una frase che esprime lo zeitgeist: “Vorrei (…) sentirmi grande quando conviene, poi sapermi muovere tra le macerie”. “Reset” indugia nella precarietà contemporanea (“Se fossimo un computer non vorremmo altro che un reset”), con uno sguardo antropocentrico che perlomeno ci protegge: “L'universo è una tasca dei pantaloni, e se la luna esiste per non farci stare soli, ma ci sentiamo in gabbia come vasi dentro i fiori”. Vasi dentro i fiori? Licenza poetica ardita! La canzone più evoluta è “Una gonna”. Un’introduzione con un’armonizzazione da colonna sonora synth, descrive il disagio con immagini efficaci: “Le mie insicurezze nella tasca sinistra, se affondo la mano si aggrappa alla stoffa e non la lascia più (…) odio tagliarmi i capelli, perché non posso più scegliere se tornare indietro”. “100 volte” insiste su una rima sdrucciola e tenta di descrivere un “noi” generazionale: “Siamo bambini elettrici, ci lanciamo sguardi magnetici, beviamo alcolici eccentrici, mischiati a narcotici chimici. Facciamo tanto i critici politici, guardiamo troppi film psicologici, nella vita quasi sempre eretici, e di noi stessi siamo giudici (…) spesso complici anche quando ci tagliamo con le forbici”. “Arcobaleni” rimarca la propria personalità, infantile e antidiva: “E porto una corona sì, ma di margherite sai (…) ho due arcobaleni che scendono dagli occhi, mi piacerebbe vivere nel mondo dei balocchi (…) spesso a volte sai mi sento una bambina sì, con le scarpe rosa e il tutù da ballerina”. Gli ormoni dominano la situazione anche in “Sfere celesti” e “Occhi rossi”. Nella prima spacchiamo tutto nell’euforia: “Frantumiamo sfere celesti, raccogliamo i fiori rimasti, tristi esibizionisti (…) ci baciamo di nascosto come i criminali”. Nella seconda piangiamo la fine: “Ci siamo fatti male e neanche ce ne siamo accorti, cuciamoci la bocca solo nei sorrisi storti, mentre ci asciughiamo con la felpa gli occhi rossi (…) io come te, lo dico adesso che mi manchi”. L’esordio di Asia termina con “Coraggio”, una spinta che l'artista si dà da sola: “Coraggio, abbi coraggio, fai sentire la tua voce a chi non ha coraggio”. Ghergo gioca a carte scoperte e si presenta per quel che è, senza filtri, insistendo forse un po’ sull’autoreferenzialità; ma dalle fotografie lasciate impresse nella mente dai testi, emerge una possibile evoluzione artistica, per questa ragazza “timida molto audace”. (Gilberto Ongaro)