SANTANA  "Lotus"
   (1974 )

Sia reso omaggio imperituro all’illuminata saggezza di Sri Chimnoy, guru di Mahavishnu, e non tanto per i suoi insegnamenti spirituali, ma per averci restituito nell’anno 1973 un Carlos Santana con un nome in più (Devadip), ma perfettamente tirato a lucido e uscito dal turbamento spirituale che l’anno prima sembrava averlo un po’ spiazzato.

Spiazzato più che altro dal punto di vista umano, perché come musicista fu proprio nel periodo di crisi che tirò fuori due dei suoi album più ispirati e profondi, “Caravanserai” e “Welcome”, in cui il suo rock latino si apriva ad una benefica contaminazione con la jazz-fusion che in quegli anni viveva un periodo di grande splendore.

Uscito dalla sua crisi personale con una convinzione ben precisa, quella che la musica poteva essere un mezzo di guarigione spirituale, nel luglio 1973 Santana decise di applicare nel miglior modo possibile l’insegnamento ricevuto, mettendo insieme una ricca selezione di quanto di meglio aveva prodotto dagli esordi (1969) ad allora. Ne venne fuori il memorabile concerto di Osaka da cui, l'anno successivo, fu tratto questo doppio CD “Lotus”, in origine triplo album.

E’ evidente fin dall’attacco che lo stato di grazia del leader ha contagiato anche gli altri musicisti, e tra l’altro quelli presenti in questo live sono una delle migliori formazioni su cui il chitarrista messicano abbia mai potuto contare. Non riesco ad immaginare quale può essere stata la reazione di un pubblico come quello giapponese, educato e competente ma per tradizione abituato a musiche scarne, dalle note rarefatte, di fronte ad una festa del ritmo straripante come quella che qui possiamo ammirare; suppongo che all’inizio avrà prevalso un certo stupore, seguito poi da un sincero entusiasmo e da una grande ammirazione.

Comunque il risultato è strabiliante e va oltre la forza dei singoli brani, spesso fusi fra loro senza soluzioni di continuità in un tour de force ritmico che deve aver fatto spellare le mani ai percussionisti Armando Peraza, José “Chepito” Areas e Leon Thomas, e venire due braccioni da culturista al batterista Michael Shrieve.

La chitarra di Santana sembra più aggressiva e graffiante rispetto agli album da studio, ma non perde un grammo della sua leggendaria pulizia: non si contano gli assoli che lasciano senza fiato. Ma nessuno strumento rimane fuori da questo clima di esaltazione: basti pensare a come l’organo di Tom Coster affronta la spirituale “Going Home” dando inizio al concerto, ai numerosi e preziosi interventi del piano elettrico di Richard Kermode e al vigoroso apporto dato dal basso di Doug Rauch ad una sezione ritmica fenomenale.

La selezione dei brani privilegia i Santana più latineggianti, che d’altronde anche allora erano i più popolari, ma si parte con l’introduzione organistica di “Going Home”, che per mezzo di uno strano flipper di suoni impazziti come “A-1 Funk” porta ad una versione estesa (11 minuti) della travolgente “Every Step Of The Way”, con i percussionisti ed il batterista già impegnati a picchiare come fabbri.

Poi si susseguono senza respiro grandi classici, come “Black Magic Woman” di Peter Green, con “Gypsy Queen” che sembra sia nata come la sua appendice naturale, e invece è di un autore diverso, e poi ancora “Oye Como Va”, mambo senza età di Tito Puente. Solo “Yours Is The Light” ci offre un attimo di meditazione nello stile dell’album “Welcome”, ma poi la raffica ritmica riprende: “Batuka”, “Xibaba”, un accenno di “Stone Flower” (peccato solo un accenno: è un vero gioiello di Antonio Carlos Jobim), e via senza freni fino a chiudere con la strumentale “Samba De Sausalito”.

Particolare menzione per “Castillos De Arena”, sia per l’illustre firma di Chick Corea, sia perché divisa in due parti, una nel primo e una nel secondo disco. Quest’ultimo fin dall’inizio presenta brani più dilatati e una maggiore improvvisazione.

“Mantra” è un'ossessiva base di percussioni, batteria e basso su cui gli altri strumenti disegnano trame inquietanti, “Kyoto” è uno show personale di Michael Shrieve alla batteria, “Incident At Neshabur” nei suoi 16 minuti contiene tante di quelle variazioni di ritmo e di motivi da poter tranquillamente considerarsi fusion a tutti gli effetti. Poi, come nel primo disco, riprende una sequenza da far venire il fiatone, che va dalla frenetica e tribale “Se A Cabo” all’ossessiva e ipnotica “Toussaint L’Overture”.

Unico momento di respiro la classicissima “Samba Pa Ti”, proposta in una strana versione “a strappi” con bizzarre variazioni e interruzioni. Mi sembra l’unico caso in cui la bellezza dell’originale non viene adeguatamente valorizzata, ma non sarà certo una sola presunta imperfezione a spostare il mio giudizio su un disco di proporzioni imponenti e di grande qualità, che era e resta un capolavoro. (Luca "Grasshopper" Lapini)