LANA DEL REY  "Norman fucking Rockwell! "
   (2019 )

Don’t ask if I’m happy
Dopo una serie di album buoni ma molto discontinui, nei quali il suo potenziale emergeva solamente in alcune occasioni, il sesto album di Lana Del Rey è il migliore della sua carriera finora e un disco particolarmente significativo nell’America di oggi. Norman Fucking Rockwell! è raffinatissimo pop barocco prodotto splendidamente, trainato da voce e pianoforte, che interseca folk, trip hop e urban jazz, mondi che la cantautrice non aveva mai esplorato così a fondo e con così tanta coerenza. Il risultato è un’opera che funziona sotto entrambi gli aspetti, sia come dichiarazione di poetica dell’autrice come individuo sia come manifesto, per la collettività e per il prossimo, dei tempi incerti e complessi che stiamo vivendo, incarnandone a pieno lo zeitgeist. Se escludiamo “The Next Best American Record”, pensata per essere inclusa in Lust for Life due anni fa e presentata in una nuova versione piuttosto diversa dal demo che iniziò a circolare nel 2017, la cover dei Sublime “Doin’ Time” e “Bartender”, che Lana aveva nominato già nel gennaio 2018 in un’intervista per Pitchfork, i restanti undici brani sono tutti prodotti da Jack Antonoff, già con Taylor Swift, Lorde e St. Vincent. In produzione Del Rey è in tutte le tracce tranne che in “Next Best American Record”, ma questo è normalità da Honeymoon (2015) in avanti.

NFR! è un ritratto sincero della cantautrice in un periodo nel quale, lo canta lei stessa rassicurando chi ascolta, “you can see I’m not sad”: in un equilibrio precario, le luci e le ombre lottano per cercare di avere la meglio, in pieno contrasto con l’immagine idillica e pastolare degli Stati Uniti veicolata dall’illustratore e pittore Norman Rockwell, nato a fine Ottocento, nominato nei titoli del disco e della canzone d’apertura, il nome spezzato da un’imprecazione che non sappiamo se ironica, di disprezzo o di sfogo. Lana vuole gettare lontano i residui della persona che ha creato nel corso della sua carriera, dove a ogni suo tentativo di esprimersi con autenticità corrispondeva spesso un utilizzo strumentale di ciò da parte dei media, dei paparazzi e dell’industria dell’arte. Ora canta di sé con un piglio universale e un’attitudine ancor più coraggiosa, non importandosi affatto delle conseguenze, senza timore di psicanalizzare sé stessa, l’ascoltatore e la società tutta. E ciò può ben essere considerato coerente, se non programmatico, nel percorso di un’autrice che aveva dichiarato che la sua opera poteva in qualche modo rientrare nel campo della psicologia.

Your poetry is bad and you blame the news
Per Lana si tratta senza dubbio dell’inizio di una seconda vita artistica, e già nel brano di apertura la sua voce narrante si pone come portatrice di verità superiori riguardanti questioni ultime, rilevanti proprio qui e proprio adesso. L’ambiente è settato: ci si muove in un mondo grottesco, lo stesso universo lynchiano che aveva caratterizzato i dischi precedenti, ma la narrativa è cambiata: se prima eravamo in un blue velvet ovattato e psicotico, in stanze d’albergo soffocanti e malate, ora siamo usciti su Mulholland Dr., pronti a fermarci in qualche tavola calda a parlare con il primo bartender che il caso ci porta. L’idea della strada e del viaggio, in effetti, popola molte canzoni, ma è lo spostamento nella propria mente il vero protagonista di tutto, ciò che spinge i personaggi a compiere azioni, intraprendere sfide e vivere così intensamente le proprie emozioni.

Ascoltare gli Eagles a Malibu, respingere il lusso e la vuotezza dell’alta società americana, rappresentare la California con le sue ipocrisie e nei suoi lati più intimi, lontani dalle piscine di Hollywood, sono obiettivi non semplici soprattutto per chi questi luoghi li vive ogni giorno, e per questo riesce, talvolta, a rimpiangere la più “fredda” New York, in un rinnovato – per la verità mai scomparso nella musica statunitense – dualismo tra East e West Coast che riaffiora in diverse canzoni. L’Hollywood party del poeta fallito e ubriaco che parla ai muri quando la festa è stanca di lui – alcuni dicono che qui si nasconda un riferimento a Father John Misty, e può benissimo essere così – è un po’ Del Rey oggi, stanca delle etichette che le sono state affibbiate, pronta finalmente al definitivo salto di qualità. E le parole, per lei da sempre centrali, sono il primo campanello d’allarme: «Goddamn, man-child / you fucked me so good that I almost said “I love you”». Siamo di fronte a qualcosa di nuovo: Scott Fitzgerald ha iniziato a lavorare sul Gatsby. Il pianoforte al centro, la voce che scalda il motore, un locale newyorchese degli Anni Venti pieno di fumo di sigarette. Non sono i fattori esterni il motivo per cui la tua poesia non funziona: il momento di svolta deve essere trovato altrove. La lente del narcisismo ha accecato i migliori e non bisogna cadere nelle sue trappole. Un frammento sparso di Arthur Rimbaud vede «il poeta brillo» insultare «l’universo», e capiamo che ciò non potrà portare mai a nulla di buono.

They mistook my kindness for weakness
L’assurdo incontra il genio e spesso l’una cosa è nutrimento per l’altra. Del Rey riesce a dar vita a uno strano, perfetto connubio dei due elementi per mostrare i lati più intimi e al tempo stesso volubili della propria anima. In “Cinnamon Girl”, titolo preso in prestito da Neil Young, un’influenza che pare lontana da Lana ma in realtà non lo è poi così tanto, si domanda se l’uomo per il quale canta possa davvero aiutarla, migliorarla e, soprattutto, non farle del male. In “Mariners Apartment Complex” lei è oramai la sua guida, “l’uomo” della relazione, e ribadisce con forza e certezza il concetto, citando qui Leonard Cohen: «I’m your man, I’m your man». Oltre a Young ci sono anche Crosby, Stills e Nash, citati in “Bartender”, che si apriva già con un invito alle «ladies of the canyon» di mitchelliana memoria.

E tuttavia, ritornando alla eccezionale “Mariners”, le nuvole non sono del tutto scomparse: la tristezza era stata fraintesa, portata in un contesto non suo, e la gentilezza confusa con la debolezza. Tutto questo tradisce un certo disagio, da parte di Lana, per la sua condizione di donna in un’industria dello spettacolo ancora troppo maschilista, chiusa nel suo gerontofilo egoismo, divoratrice di sogni e purezze, dove sembra impossibile non compromettersi. Lana rimpiange, per scherzo, di non essere la classica ass-shaker che solamente muovendo il bacino può garantirsi un’intera carriera. Appena prima, però, aveva giudicato con severità il lato sociopatico della sua psiche, quello della ragazza vestita da sposa che posa davanti a canyon desolati come in alcune sue copertine. La rassegnazione sta tutta in quel «gatekeeper carelessly dropping the keys on my nights off». Scrollarsi di dossa questa sensazione è un sollievo, e la speranza non è ancora morta del tutto.

Can a girl just do the best she can?
La domanda naturale che sorge spontanea dopo tutto questo è: può una donna mantenere la sua libertà in un mondo maschilista come è quello dello spettacolo? Può una donna essere ciò che è, nei suoi pregi e difetti, senza dover subire il giudizio severo, superficiale e sprezzante di una società per sua natura misogina, comportarsi come preferisce senza doversi giustificare? Se la speranza è una cosa pericolosa per una donna come Lana, per una donna con il suo passato, i suoi punti di riferimento, da Sylvia Plath, citata proprio in “hope is a dangerous thing for a woman like me to have – but I have it”, a Joni Mitchell, il cui Blue ritorna un po’ ovunque, nell’umore generale e in tante citazioni sottili, dimostrano che non siamo per forza di fronte a una situazione così disastrosa.

Un rinnovato, seppur misurato, ottimismo, infatti, si ritrova qua e là in NFR, condito di nostalgia e di malinconia, ma l’amore vivo e presente trionfa su quello di ieri, rimpianto e perduto, e su quello di domani, come nel ritorno di fiamma di “California”, vissuto come un’occasione per divertirsi e non per rimettere in dubbio le certezze acquisite. Non si tratta, però, di essere capita: questa, anzi, è una possibilità che viene rifiutata più volte, come nei già citati versi di “Mariners Apartment Complex” e in alcuni momenti di “The Greatest”, dove il tentativo ultimo di salvezza, propria e altrui, continua a sfuggire dalle mani dell’autrice e poi dalle nostre. «I ain’t no candle in the wind», canta di nuovo in “Mariners Apartment Complex”: la figura della poetessa maledetta adesso viene rigettata, perlomeno per quanto riguarda lo spegnersi in fretta morendo in giovane età.

24/7 Sylvia Plath
La felicità, però, resta sempre un miraggio, e il massimo che si può cantare e scrivere è che Lana quantomeno non è triste: ce lo ricorda lei stessa in più momenti. La continua, quasi ossessiva, rievocazione di Sylvia Plath si coniuga perfettamente e naturalmente con due dei temi ricorrenti del disco, la condizione della donna nel mondo dell’arte e dello spettacolo e il machismo bossy dell’uomo, presentato, quasi parodiato, in più di un passaggio, come una sorta di tic di chi vuole e pretende di controllare tutto ciò che sta intorno a lui. Il soffocamento di questo machismo si compie soprattutto con l’anestetizzare l’uomo che Lana ha di fronte, sia egli il suo partner o uno sconosciuto. Dopo che lo ha reso innocuo, lei può iniziare il percorso di riappropriazione della propria libertà. Lana si pone come nucleo forte della relazione, donna che sa controllare sé stessa e ciò che le scorre intorno, e smonta pezzo per pezzo le attitudini aggressive e padronali del maschio di turno. In “Bartender” è lei a non bere alcolici, mentre in “California” è l’uomo stesso a essere già per sua natura insicuro e imbranato: nel provare a spronarlo a lasciarsi andare di più, Lana non disdegna, ogni tanto, di manovrarlo e persuaderlo a compiere un’azione piuttosto che un’altra.

Se anestetizzare il machismo imperante, tic dell’uomo che vuole imporsi come unico capo di tutto, è il percorso (reale e artistico) più coerente e vincente, Lana sa rapportare questo trionfo – o, quantomeno, l’essere sempre allo stesso piano di lui all’interno della relazione – a una riscrittura totale della storia antropologica dell’America d’oggi, con lo scopo di dar vita su scala più larga a questa nuova filosofia. “You’re just a man / it’s just what you do / your head in your hands / as you color me blue”, canta Lana nel brano d’apertura “Norman Fucking Rockwell”, in una cascata di fragili note di piano che accompagnano la delicatissima voce. Una volta reso innocuo, l’uomo diviene una sorta di luogo comune vivente, che prova piacere nell’essere triste e dipinge la donna che ama nella stessa banale condizione. Nella splendida “Venice Bitch”, quasi dieci minuti di tortuose peregrinazioni decadenti e struggenti, Lana ripete «we’re American made», e il decalogo di come iniziare a destrutturare certe marcite impalcature mentali e sociali è forse appena iniziato.

All of your Vogues, all of your Rolling Stones
Non si incontra un vero e proprio processo ai media. Il discorso è declinato all’interno della realtà quotidiana vissuta da Lana, quel lato candid che i paparazzi cercano di rubarle ogni giorno. Per questo canta delle spiagge californiane, l’unico luogo dove si sente sé stessa, libera da sguardi indiscreti e dalla persona che porta presso di sé da quando è diventata famosa. Ma non si può sfuggire da sé stessi neanche correndo a velocità supersoniche. Lo canta con la solita, perfetta schiettezza in “Fuck It, I Love You”, un brano quasi da Ariana Grande di thank u, next nel quale dice di aver sperimentato quella sensazione, di aver accarezzato il sogno di liberarsi di sé, di quel fardello ingombrante, ma di aver capito che nessun luogo può darci riparo da quello che siamo.

La New York nella quale è cresciuta e la California dove è diventata una celebrità, dove ha cullato il sogno di creare il best next American record – e con questo disco, quantomeno per il pop di massa, ci è decisamente riuscita –, si scontrano e si abbracciano attraverso continui rimandi, confronti e fini analisi su spazi, panorami, mentalità. Proprio in “California”, che già prende in prestito il titolo da una canzone di Joni Mitchell e ha al suo interno una citazione dal medesimo brano («people / reading Rolling Stone, reading Vogue», cantava Joni), vediamo come, rispetto all’idea di party lisergico tra fiumi di alcol e droghe, Lana prediliga una festa privata, per pochi, dove celebrare il ritorno di una vecchia fiamma. Per lui porterà copie di Vogue e di Rolling Stone, benché fuori stia imperversando la fine.

Kanye West is blonde and gone
“The Greatest” è una delle canzoni migliori del disco e dell’anno, una sorta di profezia molto particolare, dove scene apocalittiche di un futuro prossimo si mescolano a situazioni già esistenti e inquietanti. Lo spirito lynchiano, sguardo grottesco, misterioso e spietato, qui trionfa in tutto il suo splendore. La nostalgia di Long Beach e New York, amici che ascoltano rock, la canzone “Kokomo” come termine ultimo, simbolo, correlativo oggettivo della tragica fine di Dennis Wilson dei Beach Boys si scontrano con un immaginario da fine dei tempi. Los Angeles sta andando a fuoco, Kanye West, biondo, è ormai andato, travolto da un flusso di scelte – politiche, in primis – che lo hanno reso inviso a tutto il mondo dello spettacolo, dalla moda alla musica. Dimenticato anche lui nei fiumi di lava che attraversano la città, Lana canta «the culture is lit, and if this is it I had a ball». Ironico e letterale al tempo stesso è il commento che poi sembra riservare a sé stessa, «I guess that I’m burned out, after all», anch’esso correlato strettamente allo scenario di cambiamento climatico che la canzone racconta. L’ironia amara di Lana esplode poi nel finale, quando, citando il brano di David Bowie, canta quasi con menefreghismo «“Life on Mars” ain’t just a song / I hope the livestream’s almost on». La fine del mondo, a differenza della rivoluzione di Gil-Scott Heron, verrà sicuramente filmata e trasmessa.

Calling from beyond the grave
La speranza è davvero l’ultima cosa a morire. La felicità è una farfalla, si posa su di te quando non te l’aspetti e quando cerchi di catturarla fallisci, e le prospettive in generale non sono particolarmente rosee: «If he’s a serial killer, then what’s the worst / that can happen to a girl who’s already hurt? / I’m already hurt». Non tanti, oggi, potrebbero condensare in due versi un immaginario pieno di violenza, depressione e ironia senza risultare banali. E nemmeno la fine di un amore in termini così schietti: «Don’t be a jerk, don’t call me a taxi / sitting in your sweatshirt, crying in the backseat». Non c’è nulla di brutto nel mostrarsi anche deboli, a volte. Lana ha già ribadito con forza per tutto il resto dell’album quanto si senta sicura e in controllo, e nella conclusione mostra di sapere gestire con raziocinio anche i momenti di crisi. Rivela le sue paure, i suoi errori e le sue indecisioni, chiama dal più profondo della tomba – un altro correlativo oggettivo di una potenza devastante – suo padre, rigetta quel velo e quell’aria da naif che si crogiola nella sua stessa tristezza che stavano diventando, per colpa dei media e del marketing, una fastidiosa etichetta. In questo senso, l’immagine del portiere che le lascia le chiavi senza troppa cura sembra più la descrizione di un recente passato per il quale Lana non prova più alcun rimpianto. Avere speranza è sì pericoloso, illusorio, persino doloroso, ma Lana ne ha e con un’ultima, faticosa giravolta vocale lo ribadisce più volte. (Samuele Conficoni)