CAU PORTA "Grow"
(2019 )
Prima di addentrarmi nella musica dei Cau Porta, lasciatemi fare una considerazione sulla seconda parola del loro nome. Come per l’intuizione dei Doors, inserire “Porta” nel proprio nome significa vestire la propria proposta di una grossa responsabilità. Evocando le porte della percezione, spesso chiuse. Anche tra simili, nessuno riesce a vivere la stessa identica esperienza di un’altra persona. Per questo, ci è impossibile comprendere fino in fondo le sensazioni di chicchessia. Figuriamoci tra non simili, tra popoli lontani. Dunque, e qui entriamo nel merito, attraverso il potere alchemico della musica, i Cau Porta ha creato una versione musicale della porta di Miyazaki, nel suo “Castello errante di Howl”: nel film d’animazione, la porta ha una ruota sul muro, e se la giri, poi apri la porta e il paesaggio di fronte a te cambia. Così è per ogni brano dell’album d’esordio “Grow”. La line up della band è un trio chitarra – basso – batteria e percussioni, ma sono presenti numerosi ospiti che rendono il disco un caleidoscopio timbrico: voci femminili, flauto, tromba, sax, vibrafono, tastiere e piano, violoncello. “Another place” ha un introduzione di mare, raggiunta da percussioni africane che imbastiscono un ritmo incalzante e sincopato. La “Tarantella del Gargano”, della Nuova Compagnia di Canto Popolare, viene stravolta: un ritmo più cadenzato, un lento funk che poi si fa psichedelico. Solo in coda, l’atmosfera prevedibilmente “folk” viene accennata come in sogno, sentendo un mandolino lontano e riverberato, come fosse registrato fra grandi portici. L’unica che rimane fedele al mood originale è la cantante, che in questo contesto risulta trasfigurata. Stessa sorte per la “Pizzica di Galatone”, che inizia come una vera e propria pizzica, ma poi il folk si tuffa nella zuppa world, che trascende la geografia. Anche “Bella ci dormi” trasforma l’originale del Canzoniere Grecanico Salentino, tra caldi suoni chillout, mentre in “Here” un flauto dialoga con gli uccellini, seguito poi da una calma chitarra elettrica che improvvisa sopra pad soffusi. Il risultato complessivo ricorda la ricchezza espressiva del Pat Metheny Group. Il brano che esemplifica la voglia di mescolare ed annullare i confini, è quello che porta il nome della band. “Cau Porta” converte lo stesso materiale tematico in maniera al contempo coerente e variopinta. Assoli di tromba muta, groove di batteria soffice sul bordo del rullante che poi prorompe in maniera più energica, il ritmo lento che diventa terzinato, e tanto altro ancora. Sullo sfondo c’è un canto popolare, probabilmente di estrazione africana, che sorprendentemente è già stato citato, in chiave ironica, dai Pinguini Tattici Nucleari, in coda alla loro “Pula”. Certamente l’intenzione dei bergamaschi non era la stessa! L’ipnotica “Grow”, dilatata à la Peter Gabriel, ospita un testo forse portoghese, forse arabo… Boh? Ormai sento l’effetto Torre di Babele, le parole perdono di importanza, in favore del loro suono. E infine “Roho” inizia con un placido clima lounge, coccolato dal flauto. Dopo una pausa, inizia una ghost track percussiva, mixata da DJ Federico Ferrer, e con questa si conclude il viaggio di “Grow”. Iniziato con le percussioni, terminato con altre percussioni. Un arcobaleno di suoni, circondato dall’essenzialità del battito, del beat, del ritmo, forse uno degli elementi che più ci unisce come specie umana, a livello culturale ma anche secondo le neuroscienze. (Gilberto Ongaro)