COSMETIC  "Plastergaze"
   (2019 )

Punto 1: il bello di questo disco è che lo posso amare senza neppure sentirmi in dovere di argomentare troppo il perché. Musicalmente, e per i non avvezzi al duraturo culto sotterraneo dei Cosmetic, è qualcosa come gli Scisma – o i Be Forest, per i meno attempati - che suonano i My Bloody Valentine. E tanto potrebbe bastare.
Una sera – ero all’Esselunga a comprare le costine – dopo trentatre secondi di “Crociera”, traccia numero 4, ho esclamato da dietro le mie cuffiette azzurre: “Non buttatela via, non fatelo!”. Alludevo all’andazzo generale della canzone, che per trentatre secondi era perfetta. Era un’invocazione alla band, che mi auguravo non avrebbe maltrattato quell’introduzione semplicemente statuaria. Ecco, dopo la canzone vira in una direzione inaspettata: veloce sulla strofa cantata e rallentata sul ritornello strumentale, in modo anche piuttosto brusco. Avrei preferito diversamente, ma va benissimo.
Punto 2: il meno bello di questo disco è che, siccome compio 48 anni a luglio prossimo, di cose così nella vita ne ho ascoltate e masticate una tale quantità da non sorprendermi più. Sempre “Crociera”, ad esempio, collassa in un minuto di feedback. Fa piacere, anche se “23 beats off” dei Fugazi arriva quasi a quattro e Neil Young, Ira Kaplan o Doug Martsch possono toccare il quarto d’ora senza problemi. E’ shoegaze cantato in italiano, non so chi lo maneggi meglio di loro, ma credo nessuno. Fatto bene, ma così bene che alla fine basta ignorare la tale quantità di cui sopra ed immergersi come un palombaro in una fossa oceanica. O in una piscina, vista la tranquillità sulle aspettative.
Sia chiaro che non di solo shoegaze vive “Plastergaze”, ma di ogni sillaba e contorsione limitrofa ad un genere mai morto nè sepolto, che rinasce quando lo davi per estinto. Qua dentro vanno a lambire in più occasioni l’emocore, come nel pallore diafano di una “Orizzonte” che gronda afflizione o di “Una razza minore” parente stretta dei Verdena più morbidi.
Punto 3: attenzione, non si parla solo di un disco. Nelle undici tracce di “Plastergaze” c’è una somma: di vite vissute e di idee, di fedeltà alla linea e di un’attitudine che mai ha perso urgenza, creatività, fiducia in sé stessa. Ci sono storie smozzicate, spezzoni, squarci, indizi che portano tutti verso quella melanconia un po’ demodè in cui anime fragili amano crogiolarsi.
Saranno gli accordi aperti, sarà quel muro di elettricità satura e distorta ad arte, saranno i testi interpretabili ad hoc, sarà il canto docile e timido come si conviene al genere, poco importa che la voce sia di Bart o di Alice: sta di fatto che mi piacerebbe descrivervi i primi quaranta secondi di “Inetti n.1”, con un’apertura à la “Plainsong” che deraglia in una pop song sfocata da Pains Of Being Pure At Heart; o la ballatona introversa de “In faccia al mondo”, o il ritornello di “Scranio” con quell’accordo storto messo lì apposta e la chitarra infida à la Sonic Youth a sfigurare il finale; o la riguadagnata semplicità nuda di “Un litigio” che riecheggia tessiture memori dei Marlene Kuntz periodo “Ho ucciso paranoia; o ancora la dimessa chiusura a due voci di “Ande”, affogata in una coda che non può non ricordare la “Sometimes” di Kevin Shields & soci. A tale proposito si veda sopra, al punto 2.
Queste le premesse.
L’embrione dei Cosmetic si forma in Romagna qualcosa come ventitre anni fa. Hanno cambiato formazione varie volte, oggi sono in quattro, sotto l’egida del fondatore Emanuele Bartolini, in arte Bart. Ultimo di sei album, tre dei quali incisi per La Tempesta, “Plastergaze” è pubblicato per Lady Sometimes Records e To Lose La Track, ma questi sono dettagli. Fine. (Manuel Maverna)