IRINA NËSTOR  "One day you'll miss today"
   (2019 )

La specificità di questo disco, intimo e appassionato, sfuggente e melanconico, è racchiusa nella sua timida ricercatezza, anima di un quadro vivido e penetrante a dispetto dei colori tenui ai quali volentieri indulge.

Gli Irina Nëstor nascono a Roma nel 2017 dall’incontro di cinque elementi già presenti da anni nel defilato universo dell’indie nostrano in varie formazioni, tra le quali ricorderei almeno Zerofans e Two Naked Oceans. Le otto tracce strumentali di “One day you’ll miss today” costituiscono il debutto della band, quarantanove minuti di post-rock impuro che oscillano fra i Giardini Di Mirò e le molte incarnazioni di Gianluca Lo Presti, passando brillantemente per i numi tutelari – dai GY!BE agli Explosions In The Sky - di una forma d’arte capace di regalare negli ultimi vent’anni perle di rarefatta bellezza.

Sviluppato non tanto sulla costruzione astratta, quanto piuttosto sulla elaborazione di pattern melodici di sorprendente immediatezza, l’album sfrutta a dovere un’innata delicatezza rinunciando per larghi tratti ai canonici movimenti in crescendo, prediligendo altresì una costruzione più ragionata e meditativa che flirta di continuo con un’elettronica docile, funzionale al risultato.

Basta lasciar scivolare i sette minuti dell’opener “’Night, mr. Lenin” per trovarsi già amabilmente smarriti tra i meandri di una musica morbida, sempre screziata da una vaga mestizia di fondo ad accrescere il fascino e l’evocatività di questo milieu privo di arzigogoli o cerebralità di sorta. E’ vero, vestigia di Mogwai e God Is An Astronaut si rinvengono tra le righe di “Arpeggio means nothing” come nella chiusa furente di “Milgram”, ma è nel lento lievitare pinkfloydiano di “Alpha”, con la sua coda in minore gonfia di pathos, o nella metronomica armonia di “Now” – quasi i Cure – che il lavoro trova ragion d’essere, spessore, identità. Veleggia ben al di là dei paletti di genere, suggerendo incursioni nei territori emozionali di Pat Metheny, di John Abercrombie, di Bill Frisell, perfino di Tim Hecker (l’apertura di “Hawaii”), rallentando gradualmente fino a raggiungere sublimazione nell’accoppiata di “Radio guerrilla” e “Pride of nations”, dodici minuti che regalano un commiato aggraziato e misurato, languido e coinvolgente pur nell’apparente staticità del suo fluire circolare.

Come ascoltare una sinfonia pacificata mentre dal finestrino di un treno guardi scorrere il paesaggio, i tuoi pensieri, la vita. Lievemente, senza affanno. (Manuel Maverna)