THE CHIEFTAINS "The long black veil"
(1995 )
Chissà se questi sei arzilli vecchietti irlandesi potevano immaginare che nel 1995, dopo più di trent’anni di onorata ma un po’ oscura carriera nel campo della musica celtica tradizionale, avrebbero inciso un disco insieme ad una schiera di rock e pop-star dai nomi così altisonanti che anche il loro mondanissimo compatriota Bono Vox, fanatico di queste “rimpatriate”, avrebbe faticato parecchio a mettere insieme. La loro riscoperta, che per molti, me compreso, fu scoperta vera e propria, si deve al boom della musica celtica negli anni ’90, e si è tradotta in una serie di ottimi dischi. Alcuni sono veri e propri raduni di altri artisti che con la musica celtica a volte c’entrano (Loreena McKennitt), ma più spesso non ci incastrano niente (Sting, Rolling Stones ecc.) e comunque hanno ritenuto opportuno omaggiare con la loro presenza questi musicisti validi e seri. Di solito questi megaraduni sanno un po’ di autocelebrazione, ma in “The Long Black Veil” sembra che Paddy Moloney, il capoccia del gruppo, abbia voluto affidare ad ogni artista il compito di interpretare a suo modo un brano tradizionale irlandese, e i risultati, ottimi, alimentano il fortunatissimo filone della contaminazione tra suoni celtici e musica moderna, quello che ha portato tanto successo in particolare ad Enya. Unica eccezione Van Morrison, che con l’ottima “Have I Told You Lately That I Love You?“ non fa altro che interpretare sé stesso, ma lui ormai fa parte a pieno titolo della tradizione musicale irlandese. Sinead O’Connor nella misteriosa e splendida “The Foggy Day” intreccia così bene la sua voce alle magiche cornamuse galiziane (ma pur sempre celtiche) e al graffiante “tin whistle” (flautino) da far pensare di essere nata in mezzo a questi suoni, e chi sa che non sia vero. Intensissima anche la sua interpretazione di “He Moved Through The Fair”, altro gioiellino dell’immenso repertorio popolare. Se di lei, che è irlandese, non ci si può stupire troppo, le sorprese più gradevoli le danno invece altri illustri ospiti, in genere legati al blues-rock, come Mark Knopfler e Ry Cooder, che realizzano una indovinatissima fusione di sonorità folk e blues mettendo la loro voce, e soprattutto le loro preziose chitarre, al servizio di temi ariosi e melodici come “The Lily Of The West” (con Mark Knopfler), “Coast of Malabar” e “Dunmore Lassies” (con Ry Cooder, la seconda uno strumentale con un crescendo di grande effetto). Sorprende anche il modo con cui Mick Jagger smentisce il cliché di rocker furioso per affrontare con pacato equilibrio un altro grande lento come “The Long Black Veil”, mentre al contrario Sting sembra voler liberarsi della sua eleganza un po’ formale per lanciarsi a testa bassa in “Mo Ghile Mear” (Our Hero) antichissima marcia scandita dai timpani. Anche il vocione stentoreo di Tom Jones non sfigura nella festosa “Tennessee Waltz” che a un certo punto accelera e diventa “Tennessee Mazurka”. I Chieftains sono sempre presenti, ma umilmente lasciano la scena ai più celebri ospiti, mettendosi al loro servizio con i loro tipici strumenti, e riservandosi due tra i pochissimi pezzi non memorabili. Il disco si chiude nel tripudio di “The Rocky Road To Dublin”, danza tradizionale interpretata con i Rolling Stones, questa volta opportunamente scatenati, e a detta di Paddy Moloney, “la più divertente di tutte le sessioni che abbiamo registrato”. C’è da credergli, e il discorso vale anche per chi ascolta questo disco pieno di sorprese, irrinunciabile per chi ama la musica celtica, ma consigliato a chiunque. (Luca "Grasshopper" Lapini)