THE VEGETABLE ORCHESTRA  "Green album"
   (2018 )

Per festeggiare I vent’anni di attività, l’orchestra più pazza d’Austria pubblica il suo quarto lavoro in studio. Il “Green Album”, Lp sostenuto anche da una campagna di crowdfunding (chiamata per il caso specifico “Krautfunding”) e appena uscito per Transacoustic Research Records, contiene 14 tracce della Vegetable Orchestra, un complesso di nove suonatori di... verdure. L’originalissima ricerca, porta a scavare nelle carote per ricavarne suoni simili a quelli del flauto, così come a percuotere zucche, aprire i fondi delle melanzane per ottenere delle specie di molle; i peperoni suonano come trombe, e tanto altro ancora. Le loro esibizioni live spesso si concludono con la bollitura dei propri “strumenti” musicali. Data l’impossibilità di ricondurre ogni sorprendente suono al giusto ortaggio, meglio descrivere ciò che si sente come fosse tutto ottenuto da strumenti tradizionali. Le possibilità sono davvero innumerevoli, e nonostante le tracce siano quattordici, c’è tantissima biodiversità e poche ripetizioni. Un’atmosfera sospesa nei fiati di carota di “Szemenye”, su armonie stridenti e intriganti come “This is the picture – Excellent Words” di Peter Gabriel. Ma tutto più arancione. O con i bassi profondi, perfetti per il dub, ottenuti in “Perfect Match”. Per i più metallari, amanti della distorsione, c’è “Fasern” con il suo porro strofinato (almeno questo l’ho sgamato, in un video su YouTube!). “Beet-L” vola su lidi psichedelici, così come l’allucinante “La Valse Ephémère”, con veri e propri lamenti umanoidi, provenienti da chissà quale tubero. “Schwarzmooskogel” regala un clima più arabeggiante, mentre “Fragilatore” fa uso del pianissimo, un volume molto basso grazie allo strofinamento di insalate. Particolarmente espressivo “Internal crisis”, con fiati che sembrano insetti, che dapprima dialogano, poi litigano, e infine soffrono, terribilmente. Un’agonia teatrale davvero credibile. “Hyperroots” sdrammatizza la situazione, creando un ritmo dance, e “Bamako” la rende sudamericana. “Reset” ricorda la pionieristica elettronica sperimentale anni ’50, ed è un altro imprevisto pugno allo stomaco, se non lo si prende col piglio ironico. “In V” ha un che di africano, con questi “legni” costanti e ipnotici. “Carrot Pano Drama” è un altro stupefacente gioco. Il titolo allude alle carote, ma è difficile immaginare, se non vedendolo, che questi soffi, questa polifonia di sirene, provenga da esse. Poi si inizia a distinguere il suono flautato, che abbiamo imparato ad accettare in precedenza. E suona prima come una battaglia di cerbottane in 8 bit, poi come una serie di rumori di bottiglie stappate, quelli ottenuti col dito in bocca, ma ad altezze diverse, ed armonizzati. Infine “Bumpkin” è un’esplorazione all’interno delle zucche. Ma rispetto a quel che si potrebbe immaginare, cioè ritmi percussivi come fossero di tamburi, ci troviamo miniaturizzati all’interno delle curcubitacee. Un vero e proprio pezzo ambient, immersi nelle pareti arancioni, mentre sentiamo come rumori di pialla o di sega tutt’intorno, come nell’atto di creare una zucca di Halloween. Che dire, The Vegetable Orchestra ha trovato una formula che permette ai nove creativi di sperimentare in molteplici modi, che dopo vent’anni non si sono ancora esauriti. (Gilberto Ongaro)