HAVARD VOLDEN "Space happy"
(2018 )
Cinquant’anni di elettronica e di musica concreta, condensati in undici tracce in funzione narrativa e suggestiva. Così si potrebbe descrivere in estrema sintesi “Space happy”, questo viaggio di Håvard Volden nei suoni sintetici analogici, uscito per la SOFA Records. Il chitarrista sperimentale norvegese ci fa navigare nel cosmo, in una profonda solitudine non angosciosa, un’esplorazione affascinante, da gustarsi con gli occhi di un bimbo che vede e sente tutto per la prima volta. Dapprima navicelle UFO richiamano la nostra attenzione (“I”), comunicando l’esigenza di decollare e seguirle. In “II”, un rumore basso che gratta come in un pezzo lo-fi, ripete i propri graffi sotto ad una molla elettrica costantemente vibrante, intraducibile a parole. Seguono input sonori solitari di “III”, che si perdono nello spazio: comunicazioni non comprensibili, tentativi di connessione con altre forme di vita, senza esito. Finalmente qualcosa si riesce ad avviare in “IV”: un suono trilla, tessendo una melodia larga e armonizzata, che indugia su ogni singola nota, mentre la chitarra sgangherata suona come ferraglia strofinata, creando un attrito che ci porta alla prima testimonianza umana. Una voce femminile recita e canta flebile. Vien da pensare che sia una donna che indossa una tuta grigia metallizzata, immersa in un futuro ipertecnologico cyberpunk. Alla fine, le sue note perdono la gravità, sommandosi e formando cori dissonanti. Il viaggio prosegue in “V”, dove siamo confusi da un paesaggio di cinguettii d’uccelli. Siamo tornati sulla Terra? O è una sua copia beta su altre coordinate? Gli uccellini infatti gradualmente sfumano, per lasciare tutto lo spazio a una modulazione rumorosa elastica, rivelando un inafferrabile suono alieno iridescente. Con “VI” ci spingiamo all’interno dei circuiti di un super computer prodigioso, riscaldati da umane note di chitarra. La colonna sonora ideale per leggere un romanzo di Asimov. Il super computer realizza poi una texture polverosa, come una tempesta di sabbia su Marte, inizialmente morbida ed avvolgente; ma i singoli granelli diventano via via più pungenti. Coerentemente, la chitarra accompagna con poche note che evocano deserti texani. La chitarra traduce in un lessico a noi noto, ciò che l’elettronica esprime in lingua extraterrestre. Ma in quest’esplorazione interplanetaria troviamo qualcosa di realmente nostro: in “VII”, dopo un lungo tappeto synth, disturbi ed arpeggi sottili che si disperdono, percepiamo in lontananza una ballata anni ’50. Un segnale radio, probabilmente lanciato chissà quanti anni fa, arrivato fin qui a trasmettere la serenità degli anni postbellici. “VIII” ci riporta alla concentrazione del viaggio, con un sibilo continuo che crea una tensione costante, come in un telefilm di fantascienza anni ’80. Suoni più gravi sono il simulacro di un motore, altri più brevi ed acuti i comandi dal pannello di controllo alla guida. Il viaggio prosegue solitario, ma… cosa? C’è qualcuno laggiù? Passo! Sentiamo cori gregoriani deformati, ripeto c’è qualcuno? Passo! Non rispondono. Avviciniamoci allora, tra i bagliori di stelle ottenuti con la chitarra in “IX” con delay e tremolo... Era una trappola! Abbiamo creato una falla nello spaziotempo, ora il tempo va all’indietro, in “X” si riavvolgono le bobine velocemente! Ora non sappiamo più dove siamo, né quando siamo. E in “XI”, in primo piano si avverte il fruscio da registrazione in cassetta e, sullo sfondo, delle donne intonano un Alleluia. E’ l’aldilà? Non lo sappiamo, ma così ci lascia Håvard Holden, e queste sono interpretazioni personali, modificabili da ogni ascoltatore, che certamente in ogni caso non resterà indifferente. Passo e chiudo. (Gilberto Ongaro)