PIQUED JACKS  "The living past"
   (2018 )

Ce ne vorrebbero di più, di dischi così.

Ricchi, intensi, vissuti. Accurati, eleganti, sicuri di sé. Scritti e interpretati con una verve che sfiora la spavalderia, e ben venga.

Ha un tiro invidiabile “The Living Past”, nuovo capitolo autoprodotto nella variegata saga dei Piqued Jacks, band pistoiese in giro da oltre un decennio nel corso del quale si è messa in luce in patria, oltremanica ed oltreoceano grazie – anche, ma non solo - ad un’indole instancabile votata al palco e ad una incrollabile fiducia nei propri mezzi, tra conferme, riconoscimenti e qualche assestamento di line-up.

Il sontuoso lavoro su arrangiamenti e sonorità – che sarebbe monco senza brani all’altezza - dà vita ad un album opulento, sovraccarico e saturo, rutilante sequenza di idee che semplicemente funzionano: sono canzoni dirette e lineari, piacevoli, mai banali, non facili, certo non spiazzanti, eppure accresciute nel loro viscerale impatto da una pungente e sagace malìa di fondo.

Il suono, appunto: rotondo, pieno, levigato, ordinato. Contemporaneo. Rigonfio, strabordante.

Arduo definire o circoscrivere i Piqued Jacks: piuttosto lontani da tentazioni indie, il loro è forse un pop scintillante che si fa cattivello qua e là (l’ingorgo armonico di “Sublunary”, il crescendo aspro di “Being Hurt”), cercando ganci e intrecci senza scadere in eccessi o tentativi a vuoto, mai cedendo alla pomposità cui una musica come questa potrebbe tendere.

Lo fanno con straordinaria naturalezza, priva di foga o ammiccamenti gratuiti, in una godibilissima giostra di brani allettanti ed attraenti che difettano forse della stoccata assassina, ma che restano comunque magistrali nel lievitare fino al culmine del pathos: mirabile il vertice espresso dalla title-track, attendista prima, quindi deflagrante in un ampio chorus screziato dalla chitarra; pregevole la melodia ariosa e contrita di “Mount Bonnell”, toccante l’eterea coralità di “P.a.i.n.t.”.

In più punti (il ritornello teso di “Dusty Shelves”, il mid-tempo confidenziale di “Eternal Ride Of a Heartful Mind”) mi ricordano il migliore James Blunt, quello che sapeva rinunciare a certe inessenziali derive smielate; altrove riecheggiano suggestioni di White Rabbits (la trascinante opener “Loner vs. Lover”), di David Gray (“Don’t Hope, Believe”) o perfino echi sparsi di Spiritualized e Killers in un gioco di specchi che, tra variazioni impercettibili e calibrate divagazioni, restituisce in forme cangianti - sempre limitrofe tra loro - tutta la spontanea vitalità di un album prezioso, affascinante in un suo modo sottile, intelligente, non immediato. (Manuel Maverna)