IN HER EYE  "Change"
   (2018 )

Una delle maggiori spinte propulsive che portano a generare creature d’arte è sicuramente impattare una forte emozione: bella o brutta che sia, qualcosa di inatteso tocca l’anima fino a trasformarsi in qualcosa di nuovo, un cambiamento che possa allargare gli orizzonti del proprio microcosmo. In tutto questo, ci son passati anche i milanesi In Her Eye, dando vita, cosi, al terzo long-playing, a quattro anni dal precedente e.p. “Borderline”. Gli otto pezzi di “Change” esprimono onestà e chiarezza d’intenti, senza nascondersi dietro evidenti riferimenti ai grandi della dark-new-wave. All’ingresso ci attende “Closer to me”, con un bel tiro e la giusta ossessività per penetrare come singolo, e con un guitar-work riverberato che porge un vassoio carico di Cure. Ovviamente, per i nostalgici di quell’immenso album che fu “Wish”, questo terzo lavoro degli In Her Eye è una manna dal cielo, in cui possono ritrovare la compattezza di quel sound ammaliante. “Bianca” ed “Elephant” variano leggermente per indossare abiti wave-shoegaze con vibrazioni verticali fino a fagocitarci in apnee ritmiche. Guarda caso, dove ci sono i massimi riferimenti alla band di Robert Smith, si punta sulla title-track per un altro singolo, benché le riproposizioni chitarristiche siano tremendamente similari e ciò porta ad una spontanea riflessione: ma se la tecnica di questo combo è molto alta, perché non ritagliarsi qualche angolatura specificatamente personale? Quesito che si risolverà (speriamo!) col prossimo album. Ora, le “Neon lights” sono deliberatamente dedicate all’illuminazione incalzante del brano, con accordi ora dondolanti, ora lievemente nervosi, con la vocalità seppellita di Giuseppe Galotti che anela di evadere con desiderio supersonico. “As in a dream” è l’episodio più slow e (forse) il meno illuminato della tracklist perché poggia su una soluzione ripetuta senza tumulti efficaci. In ogni modo, finchè c’è “vita” c’è speranza, e “Life” non cambia di molto, ma almeno ti implementa nelle orecchie bassi vorticosi e dignitosi riffs che giustificano la speranza per lavori in divenire. Tuttavia, dopo oltre un decennio di militanza, i 4 meneghini son lasciano dubbi sulle loro capacità tecniche ed ispirative seppur (per ora) derivative. E’ fin troppo facile auspicare per loro grandi orizzonti, se oseranno alzare l’asticella con matrice esclusiva che non dia adito ai tanti richiami dei Big: basterà obliare (o quasi) Cure, Dinosaur Jr e My Vitriol e ri-modellare gli spartiti per alzare orgogliosamente il mento dell’originalità, dove i paragoni rimarranno solo un pallido ricordo. Cara band, siete musicisti in gamba: perché non provarci? (Max Casali)