NUMB.ER  "Goodbye"
   (2018 )

La sacralità del santuario nel quale ci si addentra accostandosi ai labirinti mentali di Jeff Fribourg - fotografo e artista visuale losangelino, ma anche pregevole musicista, ad esempio nei Froth - è sancita dagli ottantaquattro ieratici secondi di “Lude (I need it)”, preludio inquieto per rumori di fondo ed echi catacombali che spalanca l’abisso sull’Ade.
Dai bui recessi di queste profondità nasce “Goodbye”, esordio lungo dei suoi Numb.er, gelido alito che è un monumento alla darkwave fine ’70-primi ’80 con sonorità inequivocabili e l’ombra lunga di Peter Murphy ad aleggiare su un microcosmo agitato da progressioni che sanno di incessante celebrazione dell’impero delle tenebre e dal basso metronomico di Laena Geronimo, liquido e rotondo in “Father” come tra le dita di Simon Gallup.
Il canto di Jeff è metallico e distante, catatonico e allucinato, degno contraltare ad uno scenario di fosca desolazione: non c’è uno straccio di speranza in questo compendio di tetraggine per anime perse, non uno spiraglio di luce, dall’intro fino al sinistro martellamento synthetico che conduce “We Hide” verso il ciglio del baratro su un’algida cadenza da primissimi New Order.
Tutto già strasentito, ma così sincero, così onesto, così realistico, così romanticamente vicino al buio-che-fu da (re)suscitare cieca ammirazione e fasti di passate glorie, soavi incubi, cupe vampe.
Le velocizzazioni di “Numerical Depression” ed “Again” sono scatti nevrotici che puzzano di post-punk slabbrato à la P.I.L.; “A Memory Stained” pare farina del sacco di Mrs. Ballion periodo “Hyaena”; “Without Bloom” è una “A Forest” in salsa Sisters Of Mercy che fila dritta verso il nulla, con quei vocalizzi gutturali – prima – ed un la-la-la eldritchiano – poi – stesi su una chitarra infida da “Boys Don’t Cry”; “Hate”, con la voce di Laena, è una fantasmagoria sbilenca e trasfigurata; “The Black Bird” è un lugubre rallentamento à la Bauhaus che stende un salmodiare sbavato su un tappeto di figure soffocanti. Claustrofobico, asfittico, decadente.
Ma la misura del pandemonio è tutta nel crescendo parossistico stravolto e malato che rende semplicemente memorabili i cinque minuti di “State Line”, scrigno che racchiude in arsenico e vecchissimi merletti tutta la grandezza di questo progetto, risputato ai giorni nostri da chissà quale frattura spazio-tempo. Alla fine, antichi fantasmi vincono sui nuovi in questo sabba che non equivale affatto a ricordare nel 2018 com’era il 1980: qui siamo nel 1980, o giù di lì.
Disco clamoroso, riservato a spettri nostalgici. Astenersi viventi. (Manuel Maverna)