FRANCESCO DE GREGORI "Amore nel pomeriggio"
(2001 )
Dylanizzazione. Orrenda parola, ma buona per dare un’idea del percorso artistico di Francesco De Gregori dalla metà degli anni ’80 a questo “Amore nel pomeriggio” (2001). Il suo amore per Bob Dylan è ampiamente dichiarato fin dagli esordi, ma l’avvicinamento alle tematiche e allo stile musicale del padre dei cantautori avviene per gradi e solo dopo un certo numero di dischi, in cui invece prevale il lato intimistico e sentimentale. E’ il periodo più classico, quello del De Gregori “ermetico”, che culmina nel capolavoro “Rimmel” (1975). Ma per quanto disseminata qua e là di episodi un po’ grigi, è molto interessante anche la fase successiva, quella in cui anche il poeta finalmente s’incazza, perché proprio non ne può fare a meno, ma lo fa da poeta, senza mai cedere ad atteggiamenti di eccessiva durezza, e soprattutto lasciandosi sempre libera la scappatoia verso il mondo fantasioso e delicato della purezza dei versi, vero e proprio rifugio da raggiungere prima di avvelenarsi troppo nel racconto realistico e nella denuncia impietosa di ciò che non va nel mondo. Dylanizzazione quindi, ma mai completa, neanche in “Amore nel pomeriggio”. Si parte subito con molto Dylan: “L’aggettivo Mitico” è una ballata fatta di scarni ma tetri accordi di chitarra, con basso e batteria che entrano come sassate in una cristalleria, ma soprattutto con raffiche di parole così precise, pertinenti, velenose, che si stenta a credere che a declamarle sia la pacata voce di De Gregori. “Oggi si versa il vino, si spezza il pane duemila volte che canta il gallo… Socrate grida domande per strada e il Beato Angelico dipinge muri di periferia…”: è una stupenda “Desolation Row” del Duemila: classicismo e degrado urbano, anatemi biblici e disastri ambientali. Durissima anche “Spad VII S2489”, un bel rock serrato, alla Dire Straits. Espone il cinico punto di vista del pilota di guerra, per cui “La terra era una parentesi tra una partenza e l’altra… quasi un’inutile perdita di tempo per cose di poca importanza”. Quanto è lontano il romantico “Pilota di guerra” ispirato a Saint-Exupéry, quello che “sparge sale sulle ferite delle città”. I toni più pacati e la musica idilliaca di “Natale di seconda mano” non ingannino: affiora prepotente la disperazione degli “ultimi di tutto il mondo, piccoli fiammiferai”, di chi è costretto a vivere arrangiandosi “con documenti di seconda mano”. Così come “Condannato a morte” può sembrare una spensierata ballata un po’ country, ma proviamo a metterci nei panni del suo protagonista, sia esso Salman Rushdie o chiunque è stato condannato a vivere per sempre nel terrore per motivi religiosi. “Religione può essere terrore” sarà pure la scoperta dell’acqua calda, ma andrebbe marchiato a fuoco su alcune teste fanatiche. Ma la canzone che da sola giustifica l’acquisto del disco è “Il cuoco di Salò”, e diciamo subito che di dylaniano non ha ha proprio nulla: melodia classica, pianoforte e orchestra d’archi, motivo così ispirato e toccante da ricordare i tempi della “Donna cannone”. Nei bellissimi versi rivive solo il punto di vista di una persona semplice, un cuoco, che travolto da eventi più grandi di lui, si è ritrovato al servizio dei gerarchi fascisti in fuga (“qui si fa l’Italia e si muore… dalla parte sbagliata si muore”). Come sia stato possibile scovare del revisionismo in un testo del genere non me lo so spiegare che in due modi: o una serie di elaboratissimi sofismi, oppure una robusta dose di cretinismo. Temo che la seconda spiegazione sia quella giusta, comunque all’uscita di questo disco qualcuno ebbe la faccia tosta di “scavalcare a sinistra” De Gregori, e non gli rese certamente un bel servizio. Non lo meritavano né l’autore, sempre coerente con le sue idee, né questo ottimo album, ma l’imbecillità, nonostante ci sia qualcuno che vocia e si agita per rivendicarne il copyright, in realtà è trasversale e il suo trend è sempre positivo. (Luca "Grasshopper" Lapini)