GUALTY "Transistor"
(2018 )
Quella di Simone Tilli è una scrittura scomoda. Secca, diretta, fastidiosa.
E il canto pure: aspro, incarognito, svuotato della sua dimensione di intrattenimento, un grido che si pasce di livore, di intima empietà, di cupo disinganno. Denuncia sarcastica della quotidiana barbarie in onda a portata d’occhio, disincanto iniettato a forza in brani scarnificati, ruvidi nella loro asciutta essenzialità. Parola tagliente intrisa di sporcizia e sudiciume, la materia di cui è fatta la favola bella che oggi ci illude.
Sfacciato, a tratti crudo e volgare al limite della sconcezza (il neorealismo spinto di “Family Dream”), “Transistor”, nuovo capitolo nella saga Gualty, è un fluire decadente di immagini in bianco-e-nero veicolate da suoni ostici, vettori di una poetica rovesciata e sconveniente che ne fa un album infido, talora sordido, soffocante. E’ determinato, deciso, quadrato. Vissuto con partecipazione, ma ostile.
E’ un lavoro astioso, feroce. Fa male e lo sa. Rinuncia esplicito alla veste ludica della musica, non ne ha alcun bisogno. Non diverte, ma invita a riflettere, a modo suo. Non distrae: ferisce, colpisce, mena fendenti a testa alta con brusca lucidità. Ti guarda negli occhi mentre fustiga il malcostume, aspettandosi nulla in cambio.
Il gioco è talmente ben orchestrato da reggere per cinquantatre minuti – densi come lava, mica pop - senza flessioni, mai preda di invettiva di maniera, qualunquismo becero, faciloneria da bar. Mai.
Con l’ausilio di una vera e propria band (Marco Zaninello alla batteria, Antonio Inserillo al basso, Michele Senesi alle chitarre), “Transistor” ricorre a musiche asfissianti, tetre, spolpate all’osso. Le sole possibili per descrivere un mondo decolorato. Una concezione capace di unire in linea più o meno retta – giusto per cercare appigli autoctoni - il Pierpaolo Capovilla del penultimo TDO, molto Giovanni Succi e scampoli di Alessandro Fiori, con rari squarci accomodanti ed assolutamente nessuna lievità.
In apertura “Stanotte” si dispiega fasulla su un tappeto di scordature metalliche che introducono un basso oscuro ed una bella linea vocale à la Dorian Gray: è quasi una canzone d’amore, o qualcosa che le assomiglia. Biglietto da visita ingannevole. Ci pensano il post-punk nevrotico di “Bethel”, il tema ben chiaro di “Villaggio Morte” e la tromba inquieta che sorregge il testo glaciale di “Zoobank” – digressione sulla finanza amorale che ricorda la “This Is Not A Love A Song” di Mr. Lydon – a ristabilire le distanze fra sogno (incubo?) e realtà. Da lì in avanti l’unica oasi prima del baratro è lo strumentale “Gargantua”, cesura che separa la scura pulsione dub à la Suicide di “Try Vega” e la sassata di “30 giorni Senza Sole”, fra Cure e primi Litfiba. In coda restano gli otto minuti robotici di “Sostanze Aliene”, imbuto kraut à la Umberto Palazzo di “Mare Tranquillitatis”, lo sbilenco spoken-word inacidito de “Le scimmie Cattive” con la sua elettricità disturbata, ma soprattutto l’impura veemenza della title-track, lasciva e proterva su drumming marziale con tanto di chitarra flangerata in secondo piano e ripetizioni urlate a sventrarne le viscere.
Manca poco all’epilogo. Minute of decay.
Un minuto di sola musica, anch’essa agonizzante, dissonante, sospesa: collassa nel nulla, una vecchia radio a transistor che muore, proprio come tutto il resto ha fatto già. (Manuel Maverna)