LE TENDENZE  "Le Tendenze"
   (2018 )

Ricordando la dipartita di Peter Gabriel dai Genesis, cosa succede ad una band quando perde la voce principale? Sicuramente, destabilizzazione e incertezza se proseguire o meno l’avventura, ma poi ri-emerge la voglia e la passione di rimettere tutto in moto e realizzare che, in fondo, non tutti i mali vengono per nuocere,e quindi leggere una chiave di svolta. In àmbito underground questa cosa è successa (con le dovute proporzioni…) anche a Le Tendenze, formazione milanese nata tre anni fa come quartetto e rielaborato, per forza di cose, in trio per l’esilio volontario del primo vocalist. A questo punto cosa fanno i due fratelli fondatori Daniele e Francesco Saibene? Pensano di passare, il primo, al microfono con incoraggianti risultati, ed ecco che l’omonimo debut-album è, ora, una realtà di 8 brani, implementati con g(i)usto rock-pop e tratte da tipico power-trio in cui echeggia, spesso, l’ombra dei Finley ma con più spessore ideologico. Il pezzo d’apertura “Seduto a Central Park” è incalzante e suonato con vena energica, prendendo spunto dal film “The words” e poggiando su un tema interessante: se il fato vi donasse una favorevole condizione opposta a quella che vivete, quale sarebbe la vostra reazione, sapendo che quella condizione è stata defraudata ad un altro? Occhio alle “Tigri umane”, col suo fraseggio cadenzato da belle fughe di chitarra, che ruggiscono contro l’angheria frustrata di certi genitori che tarpano le ali ai figli, pur di veder concretizzare aspettative, a loro non riuscite. Veemente quanto basta, “On-Off” è frenetica e ariosa nel suo trasformismo e, se nella società di oggi ti adegui passivamente alla massa, ecco che “Esemplare difettoso” detta lo scossone per reagire con una cascata di rock verace. Purtroppo, il “Lato oscuro” (incomprensibilmente riproposto, in coda all’album, anche in versione acustica) è proprio qui, con un brano lento e confuso nel suo incedere e non gode di un testo brillante. Ottima, invece, “Virus (del raffreddore)”: calibratamente ossessiva, picchia sui neuroni per stabilizzarsi a lungo, avendo la malizia di non stancare. La conclusione del disco poggia sulla scalpitante chitarra di “Blackout sociale”, e con un efficace monito a non ve(n)dere l’altro come merce scadente ma a rivalutarlo con la concretezza che serve. A rigor di logica, il trio meneghino consegna al mercato un esordio dignitoso, dai contenuti ricercati ed interessanti che, per mezz'ora, ci distoglie dalla caoticità quotidiana tra fantasia e adulte ponderazioni, con un occhio particolare rivolto alle relazioni sociali e all’introspezione personale, bisognoso di rivedere certe deleterie posizioni per non continuare a fare, intorno a sé, terra bruciata. (Max Casali)